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Le Vittorie del revisionismo (seguito)

L’11 dicembre 2006 firmavo uno studio di una ventina di pagine intitolato “Le Vittorie del Revisionismo” [v. Écrits révisionnistes (2005-2007), vol. VI, p. 192-226]. In esso presentavo, a titolo di esempi, venti vittorie ottenute dai revisionisti sul piano strettamente storico e scientifico, mentre sul piano mediatico e quello giudiziario la parte avversa continuava ad occupare quasi tutto il terreno. I religionari dell’“Olocausto” nascondevano le loro sconfitte e continuavano ad ingannare il gran pubblico come facevano dal 1945. Ma ecco che, improvvisamente, lo sviluppo accelerato di Internet e l’evoluzione della situazione internazionale, così incresciosa per lo Stato d’Israele e per gli Stati Uniti, a poco a poco hanno cambiato le carte da gioco. Le vittorie del revisionismo hanno cominciato a far parlare di sé. In particolare, si sono moltiplicati i siti, i forum ed i blog in cui si è potuto apprendere prima le ammissioni fatte ai revisionisti da alcuni storici dell’“Olocausto”, e poi le vere e proprie capitolazioni a cui sono stati costretti alcuni di questi storici. Innanzitutto, fin dal 1979, un gruppo di 34 professori universitari francesi aveva firmato una dichiarazione comune che la diceva lunga sulla loro incapacità a descrivere il funzionamento della “magica camera a gas” (Céline); costoro, in modo pietoso, avevano dichiarato: “Non bisogna chiedersi come, tecnicamente, sia stato possibile un tale assassinio di massa. È stato possibile tecnicamente perché è avvenuto” (Le Monde, 21 febbraio 1979, p. 23). Nel 1985, Raul Hilberg, il più illustre storico dell’“Olocausto”, finiva col riconoscere che in fondo non si aveva in mano nessuna prova della reale esistenza di un ordine, di un piano, di una qualsiasi organizzazione che avesse come mira la distruzione fisica degli ebrei d’Europa e, volendo però continuare a sostenere la finzione, decideva di ricorrere a spiegazioni stupefacenti che rientrano nel campo di ciò che si potrebbe chiamare “la parapsicologia di gruppo”) (vedere qui sotto). Nel 1995 Jean-Claude Pressac, l’uomo ligio a Serge Klarsfeld, deponeva definitivamente le armi e firmava un atto di resa (vedere qui sotto). Negli anni successivi si è potuto constatare negli storici dell’“Olocausto” una sorta di diserzione o di disfatta generalizzate: fingendo di ignorare ciò che nel 1968 la storica ebrea Olga Wormser-Migot, nella sua tesi fondamentale, era costretta anch’essa a chiamare “il problema delle camere a gas” e passando sotto silenzio numerosi altri “problemi” storici dello stesso genere, costoro si accontentavano di ripetere le affermazioni meramente gratuite dei giudici di Norimberga e, per quanto riguarda la maggior parte di essi, non si arrischiavano più a cercare le prove storiche e scientifiche del loro “Olocausto”. Ma all’inizio dell’anno 2007 un solo ricercatore ebreo rimaneva sulla pista, colui che da parte mia chiamavo “l’ultimo dei Mohicani ebrei”; in questo modo mi riferivo a Robert Jan van Pelt. Orbene, ancora una volta, la questione era destinata a concludersi con una specie di capitolazione. Come si vedrà più avanti, il 27 dicembre 2009 il nostro autore concludeva le sue lunghe ricerche con la seguente constatazione: per quanto concerne Auschwitz, quasi tutto di ciò che “sappiamo” su questo campo (capitale dell’“Olocausto”, visitata da milioni di credenti) non trova la sua prova… ad Auschwitz; ne traeva la conclusione che era meglio non spendere più tanti soldi per custodire un tale posto; la natura vi dovrebbe riassumere i suoi diritti! Si capisce l’imbarazzo di questo ricercatore: L’Express gli piacerebbe veder sparire le pure e semplici costruzioni per turisti come quella del crematorio di Auschwitz I: “Tutto lì è falso”, aveva finito col constatare nel 1995 lo storico Eric Conan (L’Express, 19-25 gennaio 1995, p. 68, così come al punto 16 del mio testo “Le Vittorie del Revisionismo” ; vedi pure, ugualmente, in inglese, l’articolo di Mark Weber, “Major French magazine acknowledges Auschwitz gas chamber fraud“, Journal of Historical Review, gen.-feb. 1995, p. 23).

Dal 1979 al 2009, cioè durante 30 anni, i sostenitori della tesi autorizzata hanno così fallito nei loro tentativi di rispondere ai revisionisti sul piano della storia, della scienza, della ricerca concreta e dello studio attento dei documenti e delle testimonianze. Per compensare questo fallimento gli adoratori dell’“Olocausto” hanno cercato rifugio nelle risorse dell’immigrazione o della credenza; da qui un proliferare di romanzi, di “testimonianze” notoriamente false, di lavori teatrali, di film, di cerimonie, di pellegrinaggi. Ed è così che lo “Shoah Business” e la “Religione dell’Olocausto” hanno sommerso il mondo coi loro prodotti e con le loro fantasmagorie.

Da parte loro, sentendo ormai di avere il vento in poppa, i revisionisti persisteranno a calcare la strada che li ha visti impegnati sin dalla fine degli anni quaranta, particolarmente Maurice Bardèche e Paul Rassinier. Autori revisionisti o attivisti del revisionismo sono apparsi in numerosi paesi, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Il più importante di questi autori è senza dubbio l’Americano Arthur Robert Butz; per non compromettere la sua sicurezza personale, eviterò di nominare qui il più straordinario degli attivisti. Ho in mente molti altri nomi di autori in particolare di origine tedesca, austriaca, belga, spagnola, francese, italiana, svizzera, canadese, australiana o sudamericana. Relativamente importante è la lista dei Nordamericani che hanno partecipato in passato o che, come Bradley Smith e i suoi amici, partecipano oggi alla battaglia revisionista.

Un’immagine ossessiona i nostri contemporanei, quella dei cumuli di cadaveri scoperti alla liberazione dei campi di concentramento tedeschi nel 1945. In questa immagine assillante credono di vedere la prova dell’efferatezza dei “Nazisti” e, perciò, istintivamente si fanno l’idea che i revisionisti sono essenzialmente persone che si assumono il compito di riabilitare Adolf Hitler. Vorrei sperare che queste persone inesperte che, di primo acchito, chiudono così il loro cuore e il loro spirito davanti al revisionismo lasciandosi portare dall’onda emotiva si mettano a riflettere sul reale significato di quelle fotografie e di quei film, in cui credono di vedere le prove, che le sconvolgono, delle “atrocità naziste”.

Le fotografie ed i film che mostrano i cadaveri

Anch’io, quando ero giovane, ero rimasto sconvolto a vedere i morti o i cadaveri ambulanti del campo di Bergen-Belsen. Lo spettacolo era offerto da un bulldozer che spingeva verso il bordo di grandi fosse i cadaveri dei detenuti che poi delle donne delle SS gettavano dentro quelle fosse. Ci veniva mostrato un medico delle SS, un certo dott. Fritz Klein, piantato a gambe divaricate proprio al centro di una fossa apparentemente con un atteggiamento spocchioso, mentre Franz Hössler, un  altro SS, davanti a un camion carico di cadaveri, sembrava che tenesse un discorso di autocompiacimento. Parecchi anni dopo avrei capito di essere stato vittima degli artifici di un film di propaganda.

Nel corso degli ultimi mesi di una guerra atroce, nel caos in cui era stata ridotta la Germania, il campo di Bergen-Belsen, brulicante di detenuti provenienti dall’Est, era stato devastato da un’epidemia di tifo. Nei giorni successivi alla liberazione di questo campo (15 aprile 1945), allorché i Britannici avevano in mano il controllo di quei luoghi, migliaia di persone (circa 14 mila?) sarebbero ancora morte, specialmente di tifo. In quello che rimaneva delle loro città i civili tedeschi si erano ridotti allo stato di trogloditi che, interrati in buche di fortuna, erano in preda alla fame e al freddo. A Bergen-Belsen per così dire non c’erano più approvvigionamenti né medicamenti né mezzi di disinfezione. È in questa situazione disastrosa che l’SS Josef Kramer, comandante del campo, decise di inviare una delegazione con bandiera bianca incontro alle truppe del Field Marshal britannico Montgomery per avvertirle che si stavano avvicinando ad un vasto focolaio d’infezione: bisognava evitare che i detenuti, una volta liberati, andassero propagando il tifo nei ranghi dei soldati alleati e tra la popolazione tedesca. Un accordo di cooperazione veniva concluso tra, da una parte, la Wehrmacht (escluse le SS) e, dall’altra parte, i responsabili dell’armata britannica. Questi ultimi, arrivati sul posto, decisero di aprire i carnai, di contare i morti, poi, dopo il conteggio, di sotterrare questi morti dentro nuove fosse. Effettivamente un bulldozer spingeva quei cadaveri sul bordo delle fosse ma il conducente era un Tommy, che io, al pari di folle d’altri spettatori, un tempo avevo scambiato per un soldato tedesco. Ancora nel 1978, probabilmente per conservare meglio l’errore nella mente dei lettori, veniva pubblicata una fotografia che “decapitava” il conducente del bulldozer (Arthur Suzman & Denis Diamond, Six Million Did Die: The Truth Shall Prevail, South African Jewish Board of Deputies, Johannesburg, 1978 [2a ed.], p. 19). Sui bordi delle fosse le donne SS, a mani nude, erano state costrette a gettare i cadaveri.

 

Quanto al dott. F. Klein e a F. Hössler, costoro erano stati obbligati a darsi un contegno apparentemente per illustrare la fierezza che avrebbe ispirato alle SS la loro pretesa opera di morte. Per fiaccare la sua “arroganza”, alcuni soldati della “Reale Artiglieria britannica” pestarono di santa ragione Josef Kramer e poi lo rinchiusero per un’intera notte in una cella frigorifera (dott. G-L Fréjafon, Bergen-Belsen, Bagne Sanatorium, Librairie Valois, Parigi 1947, p. 22). Molti altri campi hanno offerto lo spettacolo di tanti cadaveri e s’immagina facilmente la nausea dei liberatori investiti dall’odore delle vittime del tifo o della dissenteria che, visto il loro numero, non si era potuto sotterrarli.

Per prendere un altro esempio di inganno fotografico, tutti i lettori, sul momento, si sono indignati alla vista dei cadaveri accuratamente allineati nel campo di Nordhausen; tuttavia alcuni ricercatori dovevano finire col mostrare che quei morti erano in realtà vittime di un bombardamento alleato che aveva di mira principalmente le costruzioni della Blöke Kaserne. Nello stesso momento, a Dachau, a Buchenwald e altrove identici spettacoli accreditavano la leggenda secondo la quale questi campi, concepiti e amministrati come “campi della morte”, erano dotati di “camere a gas” omicide con rendimenti quotidiani stravaganti. Fatte le dovute verifiche, gli storici ufficiali finirono con l’ammettere, sotto la pressione esercitata da autori revisionisti e specialmente da Paul Rassinier, l’autore di La Menzogna d’Ulisse, che a dispetto di tante “testimonianze” di preti, di professori, di medici, queste pretese “gasazioni” di detenuti non avevano mai avuto luogo (Martin Broszat, dell’Institut fur Zeitgeschichte di Monaco, “Keine Vergasung in Dachau [Bergen-Belsen, Buchenwald, …]”, Die Zeit, 19 agosto 1960, p. 16).

Vergogna dei Tedeschi? O degli Alleati? O della guerra?

Il giorno in cui Copernico ha dimostrato che il sole non girava intorno alla terra ma che al contrario la terra girava intorno al sole si è prodotta quella che in seguito si è presa l’abitudine di chiamare “rivoluzione copernicana”. L’espressione vuol dire non solo che la realtà può differire dall’apparenza – cosa che si constata facilmente – ma anche che la realtà può situarsi all’esatto opposto dell’apparenza. È quello che è avvenuto dopo la guerra quando certi ricercatori si sono resi conto che molti orrori in un primo momento imputati ai vinti, cioè in Europa principalmente ai Tedeschi, erano forse in realtà imputabili agli Alleati. Quindi, davanti a tutte quelle fotografie che inducevano ad esclamare: “Si vergogni la Germania!” sarebbe probabilmente più giusto dire: “Si vergognino gli Alleati che hanno ridotto la Germania in quello stato!” o ancora concludere: “Vergogna della guerra e del suo corteo di abominazioni!”. Addentrandosi in territorio tedesco gli stessi GI erano rimasti sorpresi dall’estensione dei danni provocati dai bombardamenti della loro aviazione. Bisogna sapere che Churchill e Roosevelt avevano introdotto una novità quando, dotando le loro flotte aeree delle capacità adeguate, avevano intrapreso una guerra sistematica contro i civili, la cui ampiezza non era ancora mai esistita prima nella storia. Avevano deciso di radere al suolo le città grandi e piccole, e talvolta anche i villaggi. Dal loro punto di vista bisognava, col fuoco dal cielo, col bombardamento intensivo delle città e dei villaggi, col mitragliamento a volo radente sia dei fuggitivi che cercavano di scappare dalle fornaci, sia dei contadini nei loro campi, rendere la vita impossibile a tutti i Tedeschi senza eccezioni. Case, ospedali, scuole, università, uomini, donne, bambini, vecchi, bestiame, tutto era destinato a sparire. I treni non dovevano più poter circolare: occorrevano vari giorni per coprire un tragitto che in tempi normali sarebbe stato di poche ore: si può immaginare in quale stato arrivavano a destinazione i convogli, per esempio, di internati che, forzatamente o per scelta, avevano lasciato i campi dell’Est davanti all’arrivo dei Sovietici. Riflettendo sulla decisione presa da Churchill e Roosevelt, dobbiamo ammettere che era più facile fare così la guerra ai civili piuttosto che ai militari. Talvolta, nel campo degli Alleati occidentali, alte coscienze, specialmente ecclesiastiche, levavano proteste contro tale barbarie, di cui i bombardamenti di “Dresda” restano l’esempio emblematico. Ma la propaganda, da parte sua, imponeva l’obbligo di distruggere tutto ciò che vicino o lontano rappresentava Satana o, per i propagandisti ebrei, Amalek. A dire il vero, in seguito, in Giappone, in Vietnam, in Iraq ed in altri angoli del mondo, gli Americani sono stati condotti a fare questo stesso tipo di guerra devastatrice.

Le mascherate giudiziarie dei vincitori che giudicano i vinti

Personalmente, ponendomi, se lo posso dire, all’estremo centro delle opinioni in materia di politica o di storia, non sarei in grado di condannare il fatto che nel corso di una guerra un tale belligerante, come in una sorta di competizione in materia, abbia cercato di inventare ancora più numerosi strumenti di morte che l’avversario. Mi accontenterei di dire che, secondo me, essendo ogni guerra una macelleria, il vincitore è un buon macellaio e il vinto un meno buon macellaio; invece, alla fine di una guerra, il vincitore può a rigore impartire al vinto lezioni di macelleria ma non lezioni di diritto, di giustizia o di virtù. Tuttavia, è proprio quello che è accaduto al processo di Norimberga (1945-1946) e nel caso di mille altri processi dello stesso calibro, e questo fino ai nostri giorni in cui si vedono delle organizzazioni ebraiche esigere che persone nonagenarie ammalate vengano trasportate in barella davanti ai tribunali per supposti crimini che risalgono generalmente a settant’anni prima e per i quali non c’è nessuna prova e neppure talvolta il minimo testimonio. Semplicemente l’accusato si era forse trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato; per esempio, sarebbe potuto trovarsi a Treblinka, campo nel quale, senza la minima prova, si osa affermare che funzionavano, secondo alcuni, delle “camere a vapore” omicide (steam chambers) (documento PS-3311), secondo altri, delle “camere a gas” omicide; quanto alle “testimonianze” su questo campo, come su molti altri, esse sono vaghe, contraddittorie, e mai che ci si sia data la pena di verificarle, cosa che, come l’hanno provato alcuni ricercatori, tipo l’Australiano Richard Krege, era tuttavia possibile e dava ragione ai revisionisti (“Treblinka Ground Radar examination finds no trace of mass graves”, Journal of Historical Review, mag.-giu. 2000, p. 20).

A Norimberga i vincitori hanno giudicato i vinti: erano dunque giudici e parte in causa; avevano deciso in anticipo che all’occorrenza si sarebbe fatto a meno di prove vere e proprie: “il Tribunale non sarà vincolato dalle regole tecniche relative alla produzione delle prove […]. Il Tribunale non imporrà che si adduca la prova di fatti di pubblica notorietà ma li riterrà come acquisiti […]” (articoli 19 e 21 dello Statuto (Charter) del Tribunale militare internazionale. Inoltre, la giustizia dei vincitori violava gli usi della giustizia normale ignorando la separazione dei poteri (hanno partecipato alla redazione dello Statuto uomini che sarebbero diventato giudici e procuratori), istituendo la responsabilità collettiva (ogni membro di un gruppo dichiarato criminale era per ciò stesso considerato anch’esso criminale), praticando la retroattività delle leggi e negando ai condannati ogni possibilità di appello. Nessun rappresentante delle nazioni neutrali figurava tra i giudici e i procuratori. Con la maggiore serietà di questo mondo i Sovietici, col consenso dei giudici americani, britannici e francesi, avevano particolarmente la faccia tosta di rimproverare ai Tedeschi di aver proceduto a deportazioni e di avere fatto uso di campi di concentramento o di campi di lavoro forzato. Ricorrendo a una specificazione complementare dell’articolo 19 dello Statuto, il procuratore sovietico otteneva dai giudici che fosse negato ogni esame approfondito del crimine di Katyn, imputato ai Tedeschi. Quanto al principale giudice sovietico, il Maggior Generale I. T. Nikicenko, egli aveva ricoperto l’ufficio di procuratore nel 1936 nelle mascherate giudiziarie precedenti chiamate “processi di Mosca”. Il che non gli aveva impedito di essere reclutato a Norimberga.

In fondo, se si tengono presenti nella mente i crimini perpetrati contro il popolo tedesco per mezzo di una guerra aerea che mirava allo sterminio dei civili, se ci ricordiamo delle deportazioni (dette spostamenti) delle minoranze tedesche dell’Europa orientale e centrale, se a ciò si aggiungono gli stupri continui delle donne e delle ragazze tedesche (tra gli altri, fu questo il caso, all’età di dodici anni, di Hannelore Kohl, futura moglie del cancelliere; vedere Heribert Schawn, Die Frau an seiner Seite / Leben und Leiden der Hannelore Kohl, Wilhelm Heyne Verlag, Monaco 2011, p. 54-58), se si tengono a mente i saccheggi, l’accaparramento ufficiale da parte degli Alleati dell’argento, dell’oro, del platino, dei gioielli, dei valori, di alcune proprietà, delle banche, dei musei, dei brevetti scientifici ed industriali e se, per coronare il tutto, ci si rende conto del fatto che a Norimberga il processo ai dirigenti tedeschi ha meritato di essere chiamato una mascherata o, secondo le parole di Harlan Fiske Stone, presidente della corte suprema degli Stati Uniti (Chief Justice of the Supreme Court of the United States), una “high-grade lynching party” (una sofisticata operazione di linciaggio), non si può che trovare deplorevole il fatto che, dopo 66 anni, si persiste nelle scuole, all’università e nei media a predicare che, durante l’ultima guerra mondiale, i vincitori hanno rappresentato il Bene ed i vinti, il Male.

Elie Wiesel: un teste quanto mai fallace

Elie Wiesel incarna idealmente questa incomprensione della natura umana, che dappertutto, in realtà, è fatta d’una combinazione di Bene e di Male. Tale incapacità lo induce, per sostenere la tesi che il popolo d’Israele è il sale della terra e patisce il Male più di qualunque altro popolo, a mentire sfacciatamente, a predicare l’odio dell’avversario e a chiedere instancabilmente che si vada in qualche modo a sputare sulle tombe dei vinti. Nel gennaio 1945 aveva avuto insieme al padre la possibilità di scelta, offerta loro dai Tedeschi, tra il restare ad Auschwitz fino all’arrivo dei Sovietici o l’essere trasferiti in un campo ubicato all’interno della Germania; tutti e due, dopo matura riflessione, avevano scelto di partire insieme ai loro “sterminatori” piuttosto che attendere i loro “liberatori”. Arrivato a Buchenwald, dove il padre sarebbe morto di dissenteria e dove i Tedeschi sembrava uccidessero quotidianamente 10.000 persone (Stephan Kapter, “Author, Teacher, Witness”, Time Magazine, 18 marzo 1985, p. 79), non per questo gli veniva meno l’occasione di giocare, ogni tanto, a scacchi (Jorge Semprún e Elie Wiesel, Se taire est impossible, Arte Editions, Parigi 1977, p. 12). In E. Wiesel si notano molti tratti tipici del clown che sa che più esagererà, più sarà apprezzato dal pubblico. Il 7 febbraio 1996 riceveva i distintivi di dottore honoris causa dall’Università Jules Verne della Piccardia. Nel numero del 9 febbraio Le Courrier Picard scriveva a proposito della conferenza tenuta da E. Wiesel e delle sue risposte alle domande rivoltegli nella sala: “Una domanda urge: ‘Che ne pensa dell’emergenza delle correnti revisioniste e negazioniste?’ [risponde E. Wiesel:] ‘Si tratta di antisemiti virulenti, viziosi, organizzati e ben finanziati. Il giorno in cui ho ricevuto il Premio Nobel [il 10 dicembre 1986 ad Oslo], ce n’erano alcune centinaia nella strada che manifestavano contro di me. Io non gli accorderei mai la dignità del dibattito. Sono degli individui moralmente malati. Credo di saper combattere contro l’ingiustizia, ma non so combattere contro la laidezza’”. Pierre Guillaume e Serge Thion, che mi accompagnavano a Oslo nel 1986, possono attestarlo insieme a me: il numero di questi manifestanti è stato rigorosamente uguale a zero. La verità è che insieme a questi due miei amici revisionisti avevamo distribuito quel giorno alcune copie in inglese e svedese (di facile lettura per i Norvegesi) del mio volantino su “Un grand faux témoin : Elie Wiesel” (riprodotto nei miei Écrits révisionnistes (1974-1998), p. 606-611). All’entrata della sala dove si stava per fare la consegna del premio, con un’azione rapidissima, avevamo distribuito il testo ad una quarantina di persone, quindi a nostra volta eravamo entrati nella sala dove, da parte mia, a fatica mi sono trattenuto dallo scoppiare a ridere quando il candidato al premio si è messo ad intonare non so quale canto, forse ebraico ma sicuramente di effetto comico. All’uscita, il filosofo miliardario Bernard-Henri Lévy accompagnava al fianco sinistro Elie Wiesel e lanciava un’occhiata torva verso di noi.

Bisogna ritornare alla cura dell’esattezza

Ma personalmente io ho fatto un sogno: forse verrà un giorno in cui, dopo la proiezione, imposta a tutti i ragazzi di Francia, di Notte e nebbia (film classico di propaganda firmato da Alain Resnais), il maestro, invece di nutrire nell’allievo la tendenza all’indignazione irriflessa e al giudizio temerario, lo inviterà alla riflessione. Gli insegnerà a valutare la distanza che ci può essere, in questo film come in molti altri documentari-documentatori, tra l’immagine ed il commento. Le immagini che ci vengono proposte, che cosa significano esattamente? Che cosa vogliono dire quegli orrori, quelle pile di cadaveri, quel bulldozer? Quella stanza di calcestruzzo dal “soffitto con solchi fatti dalle unghie” su quale perizia criminale ci si fonda per chiamarla una “camera a gas”, cioè un mattatoio chimico per esseri umani? Dove si è mai visto che delle unghie (cioè della cheratina) possano “lasciare solchi” in una superficie di calcestruzzo? Alla vista di tanti cadaveri, chi incriminare? Il vinto? O molto più semplicemente la guerra col suo inevitabile corteo di orrori? O ancora, a ben riflettere, in questo caso preciso, non sarebbe la spietata politica bellica attuata dal vincitore? Più tardi, ci sarà sempre tempo di insegnare sia all’adolescente, sia all’adulto che quell’allievo sarà diventato che, come troppo spesso nell’avventura umana, “la prima vittima di una guerra è la verità”, che “è il vincitore che scrive la storia”, che “la giustizia giace volentieri nel letto del vincitore” e che, secondo la formula di Céline, “il deliro di mentire e di credere si attacca come la rogna”. Sì, menzogna e credulità vanno sovente di pari passo. Da questi due mali bisogna cercare di premunirsi e di guarire. A questo scopo è necessario, prima di pronunciare un giudizio, lavorare, riflettere, scrutare, soppesare poi, di nuovo, soppesare, scrutare, riflettere e lavorare ancora. Non c’è scuola più rude di quella della revisione delle idee ricevute. Questa scuola altra non è che quella del revisionismo. I revisionisti non negano. Non sono né negatori, né “negazionisti”. Essi si sforzano di essere costruttivi, positivi e talora alcuni di loro potrebbero essere qualificati come positivisti. Il loro metodo di ricerca è antico come il mondo; esso è come la sete di conoscenza o come l’amore della scienza e dell’esattezza. Siamo modesti: non pretendiamo di ricercare la verità o di averla trovata. “La verità”, soprattutto quando la parola s’impennacchia con la maiuscola, rischia di essere vaga o inaccessibile. Ciò che va ricercato è l’esattezza, cioè in ogni momento la scoperta di una piccola verità verificabile; alla fine la somma di queste piccole verità verificabili permetterà di enunciare una conclusione che, a sua volta, avrà qualche possibilità d’essere esatta.

Bisogna cercare le scatole nere dell’“Olocausto” per esaminarne il contenuto

Questo tipo di ricerca o di attività revisionista non è senza rischio. Per lanciarsi e soprattutto per persistere nell’azione revisionista bisogna avere il cuore ben saldo. Elie Wiesel ed i suoi amici fanno buona guardia intorno alle scatole nere dell’“Olocausto”: è proprio escluso per noi di avvicinarle per vedere quel che contengono. Personalmente, un giorno ho avuto la fortuna di scoprire e aprire per un attimo la scatola nera d’Auschwitz e di Birkenau al Museo di Stato d’Auschwitz. Ciò è avvenuto in due tempi. Nel 1975, in occasione della mia prima ispezione dei luoghi del “crimine”, avevo riscontrato alcune vere anomalie in quello che ci veniva presentato come un crematorio “allo stato originario” (il Krema I ad Auschwitz I) o dei crematori in rovina (i Krema II e III come anche IV e V a Birkenau o Auschwitz II). Avevo costretto allora un alto responsabile del Museo di Stato a riconoscere che il Krema I era stato “ricostruito”, laddove invece il pubblico credeva di avere a che fare con un crematorio autentico conservato allo stato originario. Io gli avevo fatto constatare l’assenza di fuliggine nella bocca di un forno crematorio, che lui mi garantiva essere “originario”; allora mi disse che il forno suddetto era in realtà una “ricostruzione”. Su questo punto lo avevo costretto ad ammettere che questa “ricostruzione” implicava necessariamente la conoscenza e quindi l’esistenza di progetti originali. Gli ho chiesto dove si trovassero questi progetti. Non senza imbarazzo mi ha confessato che si trovavano negli Archivi del museo. Obbligato di tornare in Francia, rimettevo all’anno prossimo la mia visita agli Archivi. Sorvolerò qui sui dettagli delle difficoltà allora incontrate, arrivando subito al punto: il 19 marzo 1976 negli Archivi del Museo di Stato trovai le piante dei crematori di Auschwitz e di Birkenau che si supponeva aver contenuto delle “camere a gas” omicide. Queste piante, ci erano state tenute nascoste fin dal 1945 (vedere il mio scritto “Retour sur ma découverte, le 19 mars 1976, des plans des crématoires d’Auschwitz et de Birkenau” [Écrits révisionnistes (2008-2010), vol. VII, p. 312-321]). E a ragion veduta, dal momento che esse scoprivano gli altarini. Nel Krema I il locale che si pretendeva essere stato una “camera a gas” omicida altro non era stata in realtà che una “Leichenhalle”, cioè un inoffensivo deposito fatto apposta per metterci i cadaveri in attesa di cremazione. I grandi Krema II e III di Birkenau non avevano avuto che dei “Leichenkeller”, cioè dei depositi costruiti in parte sotto terra per assicurare al loro interno una relativa frescura. I Krema IV e V, ugualmente ubicati a Birkenau, non avevano che delle camere inoffensive alcune delle quali erano dotate di stufe e perciò non avrebbero mai potuto servire da “camere a gas”. Al termine di studî prolungati attinenti allo Zyklon B (a base di acido cianidrico, il prodotto è stato inventato nel 1922 da un assistente del chimico ebreo tedesco Fritz Haber; il brevetto d’invenzione data dal 27 dicembre 1926), alle camere a gas di disinfestazione o di spidocchiamento, e soprattutto alle camere a gas americane per le esecuzioni (al gas cianidrico) concludevo che le “testimonianze” o “confessioni” riguardanti l’esecuzione sistematica degli ebrei in “camere a gas” cozzavano contro drastiche impossibilità fisiche e chimiche. Ancora oggi rimango stupito dal fatto che gli Stati Uniti, abbeverati di letteratura olocaustica ma che annoverano tanti uomini di scienza, tanti chimici ed ingegneri, non abbiano avuto uno di costoro che procedesse ad un confronto tra le “camere a gas” naziste, discretamente approssimative, e la realtà facilmente verificabile (almeno fino ad un’epoca recente) delle camere a gas americane. Basta dare uno sguardo ad una camera a gas americana per rendersi immediatamente conto che le “camere a gas” naziste sono una pura creazione mentale. Una vera camera a gas americana per l’esecuzione di una sola persona è necessariamente di una straordinaria complessità dato che bisogna evitare che il gasatore gassi se stesso 1) sia durante l’esecuzione, 2) sia durante la ventilazione, 3) sia nel momento di entrare nella camera per manipolare e tirare fuori un cadavere profondamente cianurato e che, proprio per questo, rimane molto pericoloso. Ripeto: basta anche ad una persona profana gettare uno sguardo da vicino ad una camera a gas di un penitenziario americano e farsene spiegare il funzionamento per capire che non solo le “camere a gas” naziste non sono esistite ma nemmeno sono potute esistere. Da parte mia, nel 1979, io avevo visto e studiato la camera a gas di Baltimora (Maryland). È così che nel 1979 stesso, a Los Angeles, in occasione della prima conferenza internazionale dell’Institute for Historical Review, avevo potuto rendere pubblica insieme a queste piante la mia scoperta della scatola nera d’Auschwitz e di Birkenau. “Questa è dinamite!”, aveva sentenziato una partecipante.

Le vittorie del revisionismo

Tre anni prima, nel 1976, un professore universitario americano, Arthur Robert Butz, aveva pubblicato sul preteso sterminio degli ebrei una magistrale opera intitolata The Hoax of the Twentieth Century. Nel 1985, e poi nel 1988, a Toronto, nei processi contro Ernst Zündel, i revisionisti annientavano dapprima Raul Hilberg, lo storico n° 1 della tesi sterminazionista, e poi Rudolf Vrba, il testimone n° 1 delle pretese gasazioni criminali di Auschwitz; infine grazie in particolare alle perizie e al rapporto di Fred Leuchter (193 pagine), tutto quanto il mito di queste gasazioni è entrato in agonia il 20 aprile 1988. Più tardi si vedrà disgregarsi lentamente questo elemento centrale, questo “cuore” delle accuse rivolte contro i Tedeschi del III° Reich. Ma, già dal 1988, Arno Mayer, professore di storia a Princeton, scriveva: “Le fonti per lo studio delle camere a gas sono nello stesso tempo rare e dubbie” (Sources for the study of the gas chambers are at once rare and unreliable) (Why did the Heavens not Darken? The “Final Solution” in History, Pantheon Books, New York, p. 362). Altri ricercatori che avevano per il passato strombazzato la loro certezza riguardo l’esistenza di queste “camere a gas” hanno finito con l’ammettere che non se ne avevano prove. Il Francese Jean-Claude Pressac, che era il protetto di Beate e Serge Klarsfeld, “cacciatori di ex-nazisti”, è arrivato fino al punto di scrivere che tutto quanto il dossier della storia della deportazione era “marcio” per le eccessive menzogne e che questo dossier, a dispetto delle reali sofferenze di tanti deportati, era buono solo per le “pattumiere della storia”; lo ha scritto nel 1995 ma la sua capitolazione non è stata rivelata che nel 2000. A coloro che desidererebbero saperne di più sull’argomento io mi permetto di raccomandare la lettura del mio studio su “Le Vittorie del revisionismo” dell’11 dicembre 2006 (Écrits révisionnistes (2005-2007), vol. VI, p. 192-226).

Il colpo di grazia inferto, il 27 dicembre 2009, al mito delle “camere a gas” naziste

Tre anni dopo, il 27 dicembre 2009, il mito di Auschwitz ha ricevuto il colpo di grazia. Questo colpo gli è stato inferto da un professore universitario ebreo, Robert Jan van Pelt, che si può considerare come l’ultimo ad aver voluto provare scientificamente che Auschwitz, capitale dell’“Olocausto”, era stato un “campo di sterminio” (espressione americana coniata nel novembre 1944), vale a dire un campo che sarebbe stato dotato di “camere a gas” di sterminio. I revisionisti non avevano un avversario più determinato e più deciso a combatterli sul piano storico e scientifico di questo professore che insegnava storia dell’architettura all’Università di Waterloo (Ontario, Canada). Egli difendeva la tesi abituale secondo la quale, per gasare parecchie migliaia di ebrei in una volta, un SS, salito sul tetto di certe “camere a gas”, versava dei granuli di Zyklon B attraverso quattro orifizi praticati nel soffitto di calcestruzzo delle suddette “camere a gas”. Sempre sotto la spinta delle scoperte revisioniste, si dovette ammettere che gli orifizi del Krema I erano stati creati dai… Sovietici e dai comunisti polacchi. Sennonché R. J. van Pelt ed i suoi amici si dicevano sicuri di trovare tali orifizi nel tetto di calcestruzzo, in rovina, dei Krema II e III. Tuttavia, dopo anni di ricerche, essi si rivelavano incapaci di fornire una sola fotografia di questi orifizi o dei condotti perforati (?) – che, sotto, avrebbero permesso la diffusione del gas cianidrico – e di raccogliere una sfida che io avevo riassunto nella formula: “No holes, no Holocaust” (Niente orifizi, niente Olocausto). Di qui la capitolazione di R. J. van Pelt. Il 27 dicembre 2009, citato in un articolo del Toronto Staregli rivelava che secondo lui la conservazione del campo di Auschwitz-Birkenau non aveva tanto significato: era meglio lasciare che la natura riprendesse i suoi diritti. E aggiungeva testualmente, parlando di ciò che si ritiene che si sappia circa il campo (cioè che vi si trovavano delle “camere a gas”, ecc.): “il 99% di ciò che noi sappiamo, noi non abbiamo in effetti gli elementi fisici per provarlo [Ninety-nine per cent of what we know we do not actually have the physical evidence to prove] e di pretendere che in futuro: “Noi desumeremo la nostra conoscenza [dell’Olocausto in generale] nei libri e nelle testimonianza dei testimoni oculari […] Esigere da noi stessi che si abbiano più prove materiali è in realtà, in un certo modo, cedere ai negatori dell’Olocausto fornendo una specie, in qualche modo, di prova speciale” (To demand that we have more material evidence is actually us somehow giving in to the Holocaust deniers by providing some sort of special evidence) (“A case for letting nature take back Auschwitz”, Toronto Star27 dicembre 2009).

Ecco una cosa che non era senza ricordare la straordinaria confessione, tale da far rallegrare i revisionisti, alla quale era stato costretto il giudice inglese Charles Gray quando, a Londra, l’11 aprile del 2000, aveva emessa la sua sentenza nel processo per diffamazione che era stato intentato da David Irving contro le edizioni Penguin e Deborah Lipstadt. La signorina Lipstadt aveva ottenuto la presenza ed il sostegno di R. J. van Pelt mentre invece David Irving, che aveva una mediocre conoscenza delle argomentazioni revisioniste, per timore di essere associato a Germar Rudolf e a me stesso non aveva voluto la nostra assistenza: egli era arrivato fino al punto di basare la sua querela sul fatto che era stato presentato a tutti come un “Holocaust denier” (negatore dell’Olocausto). Questa confessione del giudice era devastante per R. J. van Pelt, che aveva consacrato una parte della sua vita a cercare di trovare le prove dell’esistenza delle “camere a gas” omicide. Ecco qui la confessione del giudice Charles Gray: “Io devo riconoscere” – scrive – “che, come, penso, la maggior parte delle persone, avevo supposto che le prove di uno sterminio di massa di ebrei nelle camere a gas di Auschwitz erano inoppugnabili. Tuttavia, ho escluso questa idea preconcetta quando ebbi soppesato il pro e il contro delle prove che le due parti hanno apportato ai dibattiti” [I have to confess that, in common I suspect with most other people, I had supposed that the evidence of mass extermination of Jews in the gas chambers at Auschwitz was compelling. I have, however, set aside this preconception when assessing the evidence adduced by the parties in these proceedings] (High Court of Justice, Queen’s Bench Division, 1996-I-1113, Judgment § 13.71). Proprio dopo il paragrafo che contiene la sua sbalorditiva “confessione”, il giudice ci fornisce, nei § 13.72, 13.73 e 13.74, le ragioni precise per cui egli ha, “alla maniera di un revisionista”, rivisto e corretto la sua “idea preconcetta”. In fondo, si vede qui un giudice britannico adoperare nell’aprile del 2000, a Londra, ciò che, diciassette anni prima, il 26 aprile 1983, a Parigi, la prima camera della Corte d’appello (sezione A, presieduta da François Grégoire) aveva concluso da parte sua: per essa, Robert Faurisson, accusato da organizzazioni essenzialmente ebraiche di avere, nei suoi lavori, dato prova 1) di leggerezza, 2) di negligenza, 3) di ignoranza deliberata e 4) di menzogna, e questo per arrivare alla conclusione che le “camere a gas” naziste non erano mai esistite, in realtà aveva compiuto un lavoro in cui non si poteva trovare traccia 1) né di leggerezza, 2) né di negligenza, 3) né di ignoranza deliberata, 4) né di menzogna. I magistrati avevano allora sentenziato: “La validità delle conclusioni difese dal signor Faurisson [circa il problema delle “camere a gas”] rientra nel campo dunque [sottolineo questa parola] della esclusiva valutazione degli esperti, degli storici e del pubblico”. Chiaramente ciò significava che, visto il carattere serio degli scritti di Faurisson sull’argomento, tutti dovevano avere il diritto di dire: “Le pretese camere a gas hitleriane non sono mai esistite”.

Ma, beninteso, ero stato cionondimeno condannato a Parigi questo 26 aprile 1983 per il fatto che, apparentemente, avevo dato prova di malevolenza; in particolare la Corte d’appello mi rimproverava di non aver “mai saputo trovare una parola per esprimere il mio rispetto alle vittime” (il che era inesatto) ed essa pensava che il mio “‘revisionismo’ [poteva] figurare come un tentativo di riabilitazione globale dei criminali di guerra nazisti” (il che era un pensiero o un retro-pensiero che non avevo mai avuto). Da parte sua, a Londra, il 14 aprile 2000, David Irving ha visto la sua domanda respinta ed è stato condannato a versare due milioni di sterline ai convenuti essenzialmente per il fatto che, a quanto sembrava, egli era stato tanto malevolo quanto lo può essere un razzista.

Gli Einsatzgruppen: nessun ordine di uccidere gli ebrei

Divenendo la tesi dell’esistenza delle “camere a gas” naziste sempre più difficile da sostenere, gli storici ufficiali e i media si sono messi ad insistere sul caso degli Einsatzgruppen. Non indietreggiando davanti a nessun imbroglio essi hanno, in qualche caso, cominciato ad affibbiare a questi “Gruppi d’intervento” il nome, inventato da loro, di “Gruppi mobili della morte”. Gli Einsatzgruppen esercitando la loro attività in URSS avevano, in effetti, la missione di garantire la sicurezza alle spalle del fronte particolarmente a causa della presenza dei franchi tiratori e dei partigiani che moltiplicavano gli assassinii di soldati tedeschi ed i sabotaggi. Mai gli Einsatzgruppen hanno ricevuto ordine di giustiziare degli ebrei in quanto tali. Degli ebrei potevano essere giustiziati o per atti di terrorismo o per sabotaggio, o in qualità di ostaggi in seguito, ad esempio, di attentati, o per tal’altro motivo di questo genere. Le affermazioni in senso contrario e le costruzioni mentali su un preteso “Kommissar Befehl” o a proposito della confessione del Generale SS Otto Ohlendorf a Norimberga appartengono alla sfera del mito. In modo generale, “malgrado le più erudite ricerche” (François Furet alla fine di un colloquio alla Sorbona, il 2 luglio 1982), mai un tale ordine è stato trovato. Anche i più compiacenti storici hanno dovuto ammetterlo; vedere, ad esempio, per gli Einsatzgruppen, in particolare, Helmut Krausnick e Hans-Heinrich Wilhelm in Die Truppe des Weltanschauungskrieges / Die Einstazgruppen des Sicherheitspolizei und des SD,  Deutsche Verlags-Anstalt, Stoccarda 1981, p. 634, o ancora Yaacov Lozowick in “Rollbahn: The Early Activities of Einsatzgruppen C”, Holocaust and Genocide Studies, 1987, Vol. 2, p. 221-241.

In mancanza di prove, Raul Hilberg spiega tutto con il paranormale

Per quel che riguarda il carattere intenzionale d’un preteso sterminio degli ebrei su tutto un continente, Raul Hilberg non ha avuto paura di affermare, nel 1961, nella prima edizione della sua opera di riferimento, che erano esistiti due ordini di Hitler di uccidere gli ebrei (The Destruction of the European Jews, Quadrangle Books, Chicago 1961, p. 177). In seguito all’irrompere del revisionismo storico sulla scena internazionale egli ha rinunciato a questa affermazione, che non era accompagnata da nessun documento, da nessuna prova ed è giunto ad un’altra affermazione secondo cui, se non si poteva scoprire nessun documento, nessuna prova, è perché la distruzione degli ebrei d’Europa si era realizzata spontaneamente, senza ordini, senza piano, senza nulla, grazie all’iniziativa ed all’azione d’una ampia burocrazia che lavorava tramite la trasmissione di pensiero (The Destruction of the European Jews, 3 volumi, Revised and Definitive Edition, Holmes & Meier, New York & Londra 1985, p. 53, 55, 62). Secondo il nuovo Hilberg, questa strana burocrazia, che era considerata come disciplinata e puntigliosa, aveva di botto preso l’iniziativa di gettare a mare ogni esigenza burocratica, ogni obbedienza ad un qualunque ordine venuto dall’alto, alfine di uccidere gli ebrei; da quel momento, essa non aveva operato che “per mezzo di un incredibile incontro di menti, una trasmissione di pensiero consensuale” (by an incredible meeting of minds, a consensus-mind reading), e ciò senza un “piano di base” (basic plan), con delle “direttive scritte non pubblicate” (written directives not published), con delle “ampie deleghe di potere ai subordinati, non pubblicate” (broad authorisations to subordinates not published), con delle “direttive ed autorizzazioni orali” (oral directives and authorisations), con degli “intese implicite tra funzionari, facendo nascere delle decisioni che non necessitavano ordini e spiegazioni” (basic understandings of officials resulting in decisions not requiring orders or explanations). R. Hilberg ce lo spiega che “l’operazione non fu affidata ad un’agenzia unica” (no one agency was charged with the whole operation); “non ci fu mai un organismo centrale incaricato di dirigere e coordinare da solo l’intero processo” (no single organisation directed or coordinated the entire process); “non fu creato nessuna agenzia specializzata, e nessun progetto di spesa particolare era ideato per distruggere gli ebrei d’Europa” (No special agency was created and no special budget was devised to destroy the Jews of Europe); “in ultima analisi”, scrive, “la distruzione degli ebrei non fu tanto un risultato di leggi e di ordini quanto una questione di stato d’animo, una comprensione tacita, una consonanza ed una sincronizzazione” (In the final analysis, the destruction of the Jews was not so much a product of laws and commands, as it was a matter of spirit, of shared comprehension, of consonance and synchronization) (“Raul Hilberg explique maintenant le génocide par télépathie”, Ecrits révisionnistes (1974-1998), vol. II, p. 783-786). Non si può che rimanere sbalorditi davanti a queste fantasmagorie inventate dal numero 1 degli storici dell’“Olocausto”, davanti a queste assurde spiegazioni mediante l’intervento dello Spirito Santo della burocrazia germanica, davanti a questo “incontro di menti” qualificato dallo stesso Hilberg come “incredibile”, davanti a questo ricorso al potere della “trasmissione del pensiero”, davanti a questo “stato d’animo”, questa “tacita comprensione”, questa “consonanza” e questa “sincronizzazione”. Mai, penso, nella storiografia mondiale era stata espressa e difesa una tesi ricorrendo a delle nozioni che a questo punto sconfinano nella magia. Una magia nera, quando pensiamo agli effetti nocivi o criminali che la credenza generale nella “distruzione degli Ebrei d’Europa” ha potuto avere dal 1945 fino ad oggi su miliardi di uomini un po’ dovunque nel mondo.

Fatti concreti escludono che si sia verificata una distruzione degli ebrei d’Europa

Curiosamente gli autori che osano sostenere la tesi secondo la quale il III° Reich ha svolto una politica di sterminio degli ebrei non ci spiegano un numero considerevole di fatti che, se fosse esistita una tale politica, non avrebbero potuto verificarsi. Come scrive A. R. Butz, “La più semplice ragione valida per essere scettici per quanto riguarda l’affermazione che c’è stato uno sterminio è anche la più semplice ragione che si potesse concepire: alla fine della guerra costoro erano ancora lì” (The Hoax of the Twentieth Century, p. 28) (The simplest valid reason for being skeptical about the extermination claim is also the simplest conceivable reason: at the end of the war they were still there). Nel 1945, alla fine della guerra, il numero dei “sopravvissuti” o dei “miracolati” ebrei era stupefacente. Tanti “miracolati” non potevano costituire un miracolo ma piuttosto la manifestazione di un fatto naturale. Ogni sopravvissuto che osi testimoniare che si massacravano sistematicamente le persone della sua categoria si infligge una smentita per il solo fatto che egli è ancora vivo: è una “prova vivente” del fatto che la sua affermazione è assurda. Ancora nel 1997, cioè cinquantadue anni dopo la guerra, il numero ufficiale dei sopravvissuti ebrei era stimato, secondo alcuni, in 834.000 e secondo altri in 960.000 (“Holocaust Survivors” di Adina Mishkoff, Administrative Assistant, AMCHA, Gerusalemme, 13 agosto 1997; si trattava di cifre fornite dal gabinetto del Primo ministro israeliano). Secondo una stima dello studioso di statistica svedese Carl Nordling, a cui avevo sottoposto le valutazioni del governo israeliano, se queste cifre si riconducono ad una media di 900.000 abbiamo il diritto di concludere che nel 1945 il numero dei sopravvissuti superava di poco la cifra di tremilioni. Ancora oggi, le organizzazioni dei “sopravvissuti” pullulano sotto le più diverse denominazioni; queste riuniscono vecchi resistenti ebrei, lavoratori forzati ebrei, fuggiaschi o clandestini ebrei così come anziani “bambini d’Auschwitz”, questi ultimi comprendendo bambini ebrei nati in questo campo o internati fin dalla loro più giovane età coi loro genitori. Auschwitz, come tanti altri campi, era dotato di fabbricati ospedalieri o d’infermerie dove gli ebrei, come lo stesso Elie Wiesel, avevano accesso alle cure.

In pieno Reich, in piena guerra, case di cura ed ospedali per ebrei

In alcune città tedesche, fino alla fine della guerra, ci sono stati degli ospedali, delle case di cura riservate agli ebrei. Prendiamo l’esempio di Vienna: secondo un documento tedesco, pubblicato in inglese dallo stesso Raul Hilberg, si constata che in data 17 ottobre 1944, vale a dire qualche mese prima della fine della guerra, il Consiglio ebreo di Vienna (the Council of Elders of the Jews in Vienna) aveva la responsabilità di ospedali ebrei, di una kinderheim e d’una scuola (Children’s Home and Dayschool), d’una cucina comunitaria (Community Kitchen), d’uno stabilimento di bagni (Bath), d’una casa di cura per persone anziane (Poor People’s Home), d’un magazzino di vestiti e di mobili (Clothes and Furniture Depot), d’un ufficio di assistenza sociale (Relief Division), d’una biblioteca (Library), d’una amministrazione cimiteriale (Cemetery Administration and Grounds), d’una agenzia tecnica con annesso il suo laboratorio (Technical Column and Workshop). Il tutto era ripartito in undici punti differenti della città. Il 17 ottobre 1944 un bombardamento degli Alleati ha completamente distrutto l’ospedale pediatrico. Nella notte seguente si è dovuto installare un nuovo ospedale di fortuna (as an emergency measure a new hospital had to be set up overnight) e, in accordo con la Gestapo / Direzione Generale della Gestapo di Vienna e l’Ufficio municipale delle costruzioni (the Secret State Police / Secret State Police Main Directorate Vienna, and the City Construction Office), il Consiglio ha potuto pagare in un unico versamento un architetto competente per la ricostruzione e la falegnameria dell’ospedale (the Council handed the supervision of construction and carpentry to a competent architect against payment of a lump sum). La cucina della comunità, riservata prioritariamente ai lavoratori ebrei (43.892 pasti nel 1944), è stata danneggiata durante il raid del 5 novembre 1944 ma i danni sono stati riparati molto velocemente (Yad Vashem document O 30/5, Excerpts from the Annual Report of the Director of the Council of Elders of the Jews in Vienna, signed Josef Israel Lowenherz, dated Jan. 22, 1945, Documents of Destruction / Germany and Jewry 1933-1945, Edited with Commentary by Raul Hilberg, Quadrangle Books, Chicago 1971, p. 125-130; p. 127-128).

Un altro esempio, del tutto eloquente, è quello di Berlino e, in particolare, del suo “Ospedale della comunità ebraica” (Krankenhaus der Jüdischen Gemeinde) al n° 2 dell’Iranischenstrasse. Bisogna leggere, di Daniel B. Silver, Refuge in Hell / How Berlin’s Jewish Hospital Outlasted the Nazis (Houghton Mifflin, Boston 2003, 352 pagine) o, in mancanza, la traduzione in francese di quest’opera: Refuge en Enfer / Comment l’Hôpital juif de Berlin a survécu au nazisme (André Versaille editore, Bruxelles 2011, 304 pagine). L’autore, un giurista ebreo, ed i suoi testimoni ebrei si arrabattano inutilmente per trovare una soluzione alla domanda seguente: “Poiché Hitler aveva deciso lo sterminio degli ebrei, com’è possibile che molti ebrei abbiano, durante tutta la guerra, ricevuto molte cure in questo ospedale diretto dal dottor Walter Lustig?” La risposta, in fin dei conti, si può riassumere in due frasi: questo non potrebbe spiegarsi; si è trattato di un miracolo. Questo stesso miracolo sarebbe da doversi a due fattori principali: “la pura e semplice fortuna ed i conflitti burocratici interni in seno alle organizzazioni naziste” (“sheer blind luck and bureaucratic infighting among Nazi organisations”, come l’indica la presentazione del libro in 4° pagina di copertina). Se c’era una paura che ossessionava gli ebrei di Berlino, ivi compresi, in questo ospedale, i malati, i chirurghi, i dottori, gli infermieri ed il resto del personale, era quella dei terrificanti bombardamenti alla cieca dell’aviazione anglo-americana.

Infine, su questo capitolo dei fatti che contraddicono l’affermazione, senza prove, secondo cui la Germania del III° Reich sterminava gli ebrei conviene leggere uno studio, ricco di stupefacenti rilevazioni; intitolato “Vie quotidienne des juifs allemands pendant la guerre (Trois documents)”, è apparso nella Revue d’histoire révisionniste n° 6 (maggio 1992) alle pagine 131-140; con la firma di “Célestin Loos”, in realtà ha avuto due autori: il Belga Pierre Moreau, recentemente deceduto, ed io stesso. Il caso dell’ospedale ebraico di Berlino, diretto dal dottor Walter Lustig, vi è menzionato di sfuggita (p. 138, n. 3)

La collaborazione degli ebrei con l’occupante tedesco

Nel 1992, in uno studio consacrato agli “ebrei bruni” e riprodotto nei miei Ecrits révisionnistes (1974-1998) alle pagine 1421-1433, io ho ricordato l’esistenza ed il ruolo dei “Consigli ebrei in Europa” (p. 1429-1430) nei termini seguenti:

Già dalla fine del 1939, i Tedeschi imposero la creazione di “Consigli ebrei” per l’amministrazione delle comunità ebree di Polonia secondo città, ghetti o province. Certi Consigli si sforzarono di contrastare la politica tedesca, ma la maggior parte contribuirono notevolmente allo sforzo bellico tedesco. Fornirono manodopera e prodotti manifatturieri. Questa politica di collaborazione risoluta fu perseguita dal famoso Mordechai Chaim Rumkowski, “il re di Lodz”, che arrivò fino a battere la sua propria moneta, Jacob Gens di Vilna, Mosche Merin di Sosnowiec in Slesia ed Efraim Barasz di Byalistok. Questi Consigli condannavano la lotta armata contro i Tedeschi e certi arrivarono fino a combattere i resistenti. La Germania ebbe la sua “Rappresentanza degli ebrei tedeschi del Reich”, la Francia ebbe la sua “Unione generale degli Israeliti di Francia” (UGIF), il Belgio una “Associazione degli ebrei in Belgio”. I Paesi Bassi, la Slovacchia, l’Ungheria, la Romania e, in Grecia, Salonicco ebbero i loro Consigli ebrei. Quelli dei Paesi Bassi, di Slovacchia e dell’Ungheria furono particolarmente cooperativi. Grazie alla loro collaborazione con i Tedeschi, molti ebrei assicurarono ampiamente le sostanze: certuni come Joinovici e Skolnikoff costruirono delle colossali fortune.

Durante la guerra i contatti tra certi ambienti sionisti e i Tedeschi persisterono. Nel 1941 il “Gruppo Stern” o “Lehi” arrivò fino a proporre un’alleanza militare alla Germania contro la Gran Bretagna. A questo proposito un emissario di questa organizzazione ebrea, Naftali Lubenchik, incontrò a Beirut il diplomatico Otto Werner von Hentig.

La Germania era pronta a consegnare gli ebrei agli Americani e ai Britannici

Dopo aver preso in esame numerose soluzioni territoriali della questione ebraica, soluzioni che, come il “Madagaskar Projekt”, si sono rivelate impraticabili, la Germana era pronta a consegnare gli ebrei d’Europa agli Americani e ai Britannici ma alla condizione che questi ultimi trattengano questi ebrei presso di loro fino alla fine della guerra e non permettano loro di emigrare in Palestina, e ciò per proteggere “il nobile e valente popolo arabo”.

Effettivamente, per esempio nel 1944, Il Ministero degli Affari esteri (diretto da Joachim von Ribbentrop) fa sapere al governo britannico che la Germania è pronta a rimettergli 5000 persone “non ariane” – 85% di bambini e 15% di adulti per accompagnarli – originari della Polonia, della Lituania e della Lettonia ma alla condizione di ricevere la garanzia che costoro saranno ospitati fino alla fine della guerra nell’Impero britannico (per esempio in Canada) ad eccezione della Palestina e del Vicino Oriente. “Il Governo del Reich non può prestarsi ad una manovra che tende a permettere agli ebrei di cacciare il nobile e valente popolo arabo dalla sua madrepatria, la Palestina”. (Documento di Norimberga NG-1794; Eberhardt von Thadden, il 29 aprile ed il 5 maggio 1944; Wagner, il 29 luglio 1944. Henri Monneray, ex sostituto al Tribunale Militare Internazionale, La Persécution des juifs dans les pays de l’Est présentée à Nuremberg, Editions du Centre de documentation juive contemporaine, Parigi 1949, p. 168-169).

Il 15 gennaio 1945 Heinrich Himmler incontra a Bad Wildbad, nella Foresta Nera, lo Svizzero Jean-Marie Musy, ex presidente della Confederazione elvetica, venuto da parte degli Americani per discutere una volta ancora del “miglioramento della sorte degli ebrei”. Le trattative hanno avuto già il loro effetto su un punto; finora assegnati talvolta come tutti gli altri ai lavori più duri, gli ebrei si sono visti accordare un privilegio, quello di non essere più destinati ai “lavori duri” ma solamente ai “lavori normali”. In una nota consacrata a questo incontro H. Himmler giunge a scrivere:

Gli ho di nuovo precisato la mia posizione. Noi assegniamo gli ebrei al lavoro e, beninteso, inclusi i lavori duri quali la costruzione di strade, di canali, gli scavi minerari e lì vi trovano una forte mortalità. Da quando sono in corso le discussioni sul miglioramento delle condizioni di vita degli ebrei, essi sono impiegati ai lavori normali, ma va da sé che devono, come ogni Tedesco, lavorare negli armamenti. Il nostro punto di vista sulla questione ebraica è il seguente: la presa di posizione dell’America e dell’Inghilterra verso gli ebrei non ci interessa in alcun modo. Ciò che è chiaro è che non li vogliamo avere in Germania e nell’ambito della vita tedesca in ragione dell’esperienza più che decennale dopo la [prima] guerra mondiale, e che non intavoleremo alcuna discussione su questo argomento. Se l’America li vuole prendere, ce ne rallegreremo. Ma deve essere escluso, e su ciò una garanzia ci dovrà esser data, che gli ebrei che lasceremo uscire [dall’Europa continentale] tramite la Svizzera non possano mai essere respinti verso la Palestina. Noi sappiamo che gli Arabi, tanto quanto lo facciamo noi Tedeschi, rifiutano gli ebrei e noi non vogliamo prestarci ad un’indecenza quale quella di inviare dei nuovi ebrei a quel povero popolo martirizzato dagli ebrei (zu einer solchen Unanständigkeit, diesem armen, von der Juden gequälten Volke neue Juden hinzuschicken) (Documento dell’US-Document-Center, Berlino. Fotografia in Werner Maser, NürnbergTribunal der Sieger, Droemer Knauer, Monaco-Zurigo 1979, p. 262-263).

Gli eccessi commessi contro gli ebrei potevano essere puniti con la pena di morte

Molti altri particolari materiali escludono che le autorità tedesche abbiano seguito una qualunque politica di sterminio degli ebrei; ma penso che la maggior prova dell’inesistenza d’una tale politica risiede nel fatto che l’uccisione d’un solo ebreo o d’una sola ebrea rischiava di costare al suo autore delle condanne che potevano arrivare fino alla pena di morte seguita dall’esecuzione. In mancanza di spazio, rinvio a questo proposito alle note in inglese d’una conferenza che ho pronunciato nel 2002 presso l’Institute for Historical Review (IHR): “Punishment of Germans, by the Third Reich authorities, for mistreatment of Jews (1939-1945)”; successivamente apparirà una traduzione in francese sotto il titolo di “Repressione da parte delle autorità del III° Reich degli eccessi commessi dai Tedeschi contro gli ebrei (1939-1945)”.

L’impostura dei Sei Milioni. Wilhelm Höttl e il Tribunale di Norimberga smascherati

Nelle righe seguenti mi propongo di mostrare in prima istanza come è nato il mito dei pretesi Sei Milioni di ebrei uccisi o morti durante la Seconda Guerra mondiale, poi grazie a quale mentitore e a quali menzogne è stato avallato dal Tribunale militare internazionale (TMI) di Norimberga e, infine, come, nel 1987, io sono personalmente riuscito, davanti a testimone, a smentire Wilhelm Höttl, ex ufficiale SS, facendogli riconoscere di aver addotto falsa testimonianza nel dichiarare per iscritto e sotto giuramento che aveva appreso questa cifra dalla stessa bocca di Adolf Eichmann.

È nel 2003 che l’Americano Don Heddesheimer, di professione avvocato, ci ha rivelato che il mito dei Sei Milioni ha avuto la più sordida origine che si possa immaginare: dal 1900 (e forse anche prima?) degli ebrei di New York avevano fabbricato e lanciato un efficace slogan pubblicitario che permetteva loro di raccogliere milioni di dollari durante le campagne di raccolta- fondi (fund-raising campaigns). Lo slogan messo a punto da questi ebrei si riassumeva, se lo si può dire, in due frasi: “In questo momento milioni di nostri fratelli stanno per morire in Europa; donateci del denaro per venire in loro soccorso”. In generale, questi ebrei europei si supponeva che fossero numericamente “cinque milioni” oppure “più di cinque milioni” o, soprattutto, “sei milioni”. Secondo il caso ed i periodi storici, erano i Russi, gli Ucraini, gli Zar, i Polacchi che venivano presentati come carnefici degli ebrei… (The First Holocaust / Jewish Fund-Raising Campaigns with Holocaust Claims During and After World War One, Preface by Germar Rudolf, Theses & Dissertations Press, Chicago 2003, 144 p.). Il giornale che ha contribuito di più alla diffusione degli slogan propri di queste campagne di raccolta-fondi è stato il New York Times. Una delle personalità più attive è stato il rabbino Stephen Wise (1874-1949), amico successivamente dei presidenti Wilson e, soprattutto, F. D. Roosevelt; fondatore del World Jewish Congress, egli era un militante sionista.

A partire dalla Seconda guerra mondiale i carnefici designati sono diventati Hitler o i Tedeschi mentre gli ebrei europei erano indicati “morti” o “uccisi” e non più soltanto “in procinto di morire”. Nel 1945-1946 la delegazione americana nel Processo di Norimberga si è trovata, sembra, costituita da ebrei nella proporzione del 75%; questa stima è quella dell’avvocato generale americano Thomas J. Dodd (vedi, nel libro di suo figlio Christopher J. Dodd e di Larry Bloom, Letters of Thomas J. Dodd from Nuremberg, Crown Publishers [Random House], New York 2007, la lettera del 20 settembre 1945 a sua moglie, p. 136; in francese, Lettres de Nuremberg / Le procureur américain raconte, Presses de la Cité, Parigi 2009, p. 163). Si può pensare che almeno una parte di questi ebrei, cullati dal ritornello dei “milioni di ebrei europei morti o destinati a morire”, hanno finito col credere in buona fede a ciò che essi sentivano o leggevano su questo argomento. Per costoro, l’essenziale era di far avallare questa credenza dai giudici di Norimberga. Allora, per raggiungere il loro scopo essi si sarebbero serviti di un personaggio tra i più ambigui, un ex comandante, poi tenente-colonnello delle SS, che, negli ultimi mesi della guerra, in Italia, venendo a sapere che rischiava l’esclusione dalle SS per malversazioni e per contatti con il nemico, aveva avuto un abboccamento con le autorità alleate. Alla fine della guerra, fatto prigioniero e dimostratosi di una esemplare docilità, viene trasferito a Norimberga dove collabora pienamente con l’accusa. Si deve a lui, specificatamente, se l’accusa dispone, firmato di suo pugno, dell’impressionante organigramma della Polizia di sicurezza e del Servizio di Sicurezza tedeschi (Documento PS-2346). Costui accetta di firmare un affidavit (una dichiarazione scritta sotto giuramento) il 26 novembre 1945 (Documento PS-2738) in cui pretende che alla fine del mese d’agosto 1944, nel suo appartamento, a Budapest, ha ricevuto la visita del suo collega il tenente-colonnello Adolf Eichmann, che gli avrebbe detto d’avere poco tempo prima fatto pervenire un rapporto a Himmler, che voleva sapere il numero esatto degli ebrei finora uccisi. Secondo questo rapporto, A. Eichmann avrebbe testualmente dichiarato che circa quattro milioni di ebrei erano stati uccisi (getötet) nei diversi campi di sterminio (in der verschiedenen Vernichtungslagern) mentre altri due milioni avevano trovato la morte in un altro modo, per la maggior parte essendo stati fucilati dagli Einsatzkommando della Polizia di Sicurezza durante la campagna di Russia. E A. Eichmann aveva aggiunto che Himmler non aveva apprezzato questo rapporto poiché, per lui, il numero degli ebrei uccisi doveva essere superiore a sei milioni. L’affidavit è letto davanti al tribunale, il 14 dicembre 1945, dal sostituto americano William Walsh che commette la disonestà di tradurre il dubbio termine Vernichtungslagern dal classico “campi di concentramento”. Interviene un avvocato tedesco. Richiede la comparizione di Höttl. Non l’otterrà mai. Ed il colmo sarà raggiunto quando, nella sentenza finale, il Tribunale oserà concludere il 30 settembre 1946: “Adolf Eichmann, che Hitler aveva incaricato di questo programma [di sterminio], ha stimato che questa politica aveva causato la morte di sei milioni di Ebrei, di cui quattro milioni perirono nei campi di sterminio” (TMI, I, p. 266). La verità è che mai Hitler aveva incaricato A. Eichmann o chiunque altro d’un tal programma e che questa stima non era di A. Eichmann, ma gli era stata attribuita da W. Höttl. Dopo la guerra, W. Höttl aveva continuato a collaborare con gli Alleati nel timore di essere consegnato ad una Ungheria governata dai comunisti che non avrebbero mancato di metterlo a morte. In questo frattempo il suo collega A. Eichmann viveva in Argentina fino al giorno in cui, nel 1960, è stato prelevato dal Mossad e condotto forzatamente in Israele per esservi condannato al termine d’una farsa giudiziaria ancor peggiore di quella di Norimberga. In sede di istruttoria del suo caso il giudice Avner Less, capitano dell’esercito israeliano, chiede al prigioniero se ha da fare dei commenti sulle dichiarazioni di W. Höttl riguardanti lui; la sua risposta è la seguente: “Senz’altro! Le dichiarazioni di Höttl sono un guazzabuglio di fandonie che quest’uomo si è ficcato in testa! (Jawhol! Die Angaben von Höttl, das ist ein Sammelsurium von Durcheinander, das der Mann hier in seinen Kopf bekommen hat; vedere Jochen von Lang, Das Eichmann-Protokoll, Severin und Siedler, Berlino 1982, p. 107). A. Eichmann dimostra in seguito che l’emergere dopo la guerra di milioni di sopravvissuti non fa che contraddire la possibilità che sia esistito un programma di sterminio fisico degli ebrei. Egli dichiara, ad esempio, alla pagina seguente: “Caro Capitano, dopo la guerra gli Alleati hanno censito – credo – 2,4 milioni di ebrei. E centinaia e centinaia di migliaia di ebrei sono riemersi dai campi di concentramento” (Herr Hauptmann, da sind immerhin – glaube ich – wie gesagt, es sind 2,4 Millionen von den Allierten nach Kriegsschluss gezählt worden. Und Hunderttaunsende von Juden kamen aus den Konzentrationslagern). Quando, da parte sua, egli usa a proposito degli ebrei la parola Vernichtung, egli la intende nel senso di annientamento del potere degli ebrei (nell’ambito della ricerca d’una possibile “soluzione finale territoriale della questione ebraica”) e non nel senso che i traduttori amano darle di “sterminio fisico” (p. 110).

Nel 1987 W. Höttl, fatto oggetto dai suoi compatrioti di critiche o di domande di chiarimenti riguardo alle sue parole che egli ha attribuito al suo collega A. Eichmann, comincia a battere in ritirata. Improvvisamente pretende che è sotto l’effetto dell’alcool che quest’ultimo aveva parlato; Höttl gli aveva, pare, fatto bere a profusione del l’alcool ungherese suo preferito, il barack, che è a base d’albicocca (Welt am Sonntag, 8 marzo 1987, p. 2). Io gli scrivo al suo domicilio di Altaussee in Austria dove è direttore di scuola. Ottengo di vederlo per due giorni di seguito in compagnia di un Austriaco di nome R. M. Il 3 febbraio 1989 R. M. ed io siamo ricevuti nel suo ufficio. Non gli avevo assolutamente nascosto le mie convinzioni revisioniste. Gli pongo qualche domanda sul suo colloquio dell’agosto 1944 con A. Eichmann. Lo lascio parlare lungamente ma ad un tratto gli dichiaro che, per almeno due ragioni, non credo al contenuto del suo affidavit: dapprima i sei milioni di ebrei uccisi nel luglio o agosto 1944, mentre restavano ancora nove mesi di guerra, ciò lascerebbe supporre per tutta la durata della guerra una cifra ancora superiore a questa, già enorme e non provata, dei sei milioni (l’equivalente della popolazione d’un paese come la Svizzera); poi, rilevo in questo stesso affidavit una parola che mi sembra essere veramente un anacronismo – e si sa che in storia l’anacronismo è uno dei segni di falsità. La parola in questione è quella di Vernichtungslagern, cioè “campi di sterminio”. È precisamente la traduzione in tedesco di un neologismo americano, quello di “extermination camps”, apparso nel novembre 1944 a Washington in un celebre rapporto: lo “War Refugee Report“ o “Auschwitz Protocol[s]”, dovuto al testimone mitomane Rudolf Vrba. È inverosimile che A. Eichmann abbia usato una tale espressione nell’agosto 1944 a Budapest. Visibilmente colpito dall’argomentazione, il nostro interlocutore, perdendo ogni sicurezza, ci dichiara con un tono lamentoso: “Ma perché accordate tanta importanza a questa dichiarazione di Eichmann?” E a spiegarci che l’uomo era allora sotto l’effetto dell’alcool e che soffriva nei suoi confronti, di lui, W. Höttl, d’un complesso d’inferiorità che lo conduceva ad ingrandire i fatti e le cifre. In altre parole, W. Höttl rimetteva d’un tratto in dubbio il punto centrale della propria dichiarazione sotto giuramento. Anzi, lo privava di ogni valore. Ordunque è proprio questa rimbombante dichiarazione che, in seguito, doveva permettere al Tribunale di gettare in faccia al mondo che la Germania aveva sterminato sei milioni di ebrei. W. Höttl aveva mentito poi, come lo si è visto, a questa menzogna i giudici di Norimberga avevano dopo aggiunto la loro propria menzogna attribuendone freddamente la detta dichiarazione ad A. Eichmann in persona.

L’indomani mattina, cioè il giorno dopo il nostro primo colloquio, ci preparavamo, R. M. ed io, a lasciare il nostro hotel per recarci, come convenuto, al secondo quando il telefono ha squillato: la Signora Höttl ci comunicava che suo marito, poiché stava male, non poteva riceverci.

Fino ad oggi, R. M. è ancora vivo e può attestare quello che dico qui e che, in ogni modo, si trova registrato nella nostra corrispondenza. Devo dire che, in seguito, ho continuato ad intrattenere con W. Höttl una corrispondenza. Gli ho suggerito di lasciare ai posteri uno scritto in cui ristabilirebbe la verità. La sua risposta e le lettere che ne sono seguite mostrano un uomo deciso a rifiutare il mio suggerimento ma turbato. Nel 1997, pubblicherà Einsatz für das Reich (Al Servizio del Reich) (edizioni S. Bublies, Coblenza). Curiosamente, nella parte consacrata a “Eichmann ed i sei milioni”, si mostrerà discreto e sfuggente sulla parte essenziale dell’argomento e arriverà al punto di scrivere: “questa cifra dei 6 milioni sembra essere in ogni modo magica” (Diese Zahl von 6 Millionen scheint irgendwie magisch zu sein) (p. 83). Certe sue osservazioni saranno francamente revisioniste (p. 82-85 e 420-423) ma egli avrà la precauzione di concludere con una professione di fede olocaustica che qualificherei da verbale. Morirà due anni più tardi all’età di 84 anni. La storia ricorderà la sua vigliaccheria. Ma Höttl può vedersi riconoscere delle circostanze attenuanti: in un primo momento, personalmente, se egli avesse rifiutato di collaborare con gli Americani, sarebbe stato consegnato agli Ungheresi, che l’avrebbero impiccato; successivamente, avrebbe dovuto essere un eroe per sfidare contemporaneamente la giustizia dei vincitori, la polizia ebraica del pensiero e questa religione dell’“Olocausto”, avvolta da un’aura di sacro terrore e che, a poco a poco, negli anni 80 invaderà tutto l’Occidente.

Il bilancio

Finora, sul piano strettamente storico e scientifico, il bilancio è disastroso per i sostenitori della verità ufficiale. Non rimane più pietra su pietra dell’edificio costruito dal Tribunale di Norimberga nel 1945-1946, dal Tribunale di Gerusalemme nel 1961, così come da Léon Poliakov, Gerald Reitlinger, Raul Hilberg ed una folla di autori principalmente ebrei. Per limitarci ai tre elementi essenziali dell’accusa portata contro Adolf Hitler ed il IIIo Reich, nessuno, nei sessantacinque anni e più che sono seguiti alla guerra, ha potuto trovare un solo ordine di uccidere gli ebrei, né una sola prova che sia esistita una sola camera a gas o un solo camion a gas omicida, né una sola prova che sei milioni di ebrei europei siano stati assassinati o anche solamente abbiano trovato la morte durante la Seconda Guerra mondiale. Quando il revisionista americano Bradley Smith, responsabile della Committee for Open Debate on the Holocaust (CODOH), domanda ai professori universitari del suo paese di volergli fornire, prova alla mano, il nome d’una sola persona che sia morta in una camera a gas d’Auschwitz, gli si risponde con l’insulto o il silenzio; perché?

Da parte sua, E. Wiesel ha scritto nel 1994: “Le camere a gas, è meglio che restino chiuse a sguardi indiscreti. E all’immaginazione” (Tous les fleuves vont à la mer / Mémoires, Seuil, Parigi 1994, p. 97) (Let the gas chambers remain closed to prying eyes, and to imagination, All Rivers Run to the Sea, Memoirs, Knopf, New York 1995, p. 74); con ciò egli ci fa una confessione, quella di un terribile imbarazzo che condivide con i suoi simili, storici compresi. Quando aggiunge: “Non si saprà mai ciò che è avvenuto dietro le porte d’acciaio”, si lascia andare alla sua “immaginazione” poiché la sola pretesa “camera a gas” che si possa visitare ad Auschwitz possiede due comunissime porte di legno, di cui una è in parte di vetro (e si apre verso l’interno, laddove si sarebbero accumulati i cadaveri!); quanto alla terza apertura, essa offre libero accesso al locale contemporaneamente dei forni, del deposito di coke e delle urne: questi forni, arroventati talvolta a 900°, sarebbero stati ubicati nell’immediata vicinanza della “camera a gas” piena di un prodotto (di disinfezione, lo Zyklon B) che lasciava sprigionare del gas cianidrico, un gas conosciuto per la sua caratteristica di essere esplosivo! Nel secondo volume delle sue Mémoires Wiesel ritorna su questa necessità di nulla dire, nulla raccontare, nulla immaginare in merito alle pretese “gasazioni”: “Credo di saper tutto, di indovinare tutto sulle ultime ore delle vittime. Non dirò nulla. Immaginare sarebbe indiscreto. Raccontare sarebbe indecente”, ed aggiunge che, in quel luogo, ad Auschwitz-Birkenau, “proprio mentre ci avviamo verso il luogo in cui gli uccisori avevano costruito le loro camere a gas e i loro crematori [in realtà, delle rovine di semplici crematori – RF], bisogna stringere i denti e reprimere il desiderio di urlare”. Eppure con i suoi compagni ebrei egli va dapprima a mormorare, poi “il mormorio diviene un pianto, il pianto d’una comunità divenuta pazza, pazza di dolore e di lucidità (… et la mer n’est pas remplie / Mémoires 2, Seuil, Parigi 1996, p. 291 [1]). Ancora più avanti Wiesel ripeterà: “Io mi proibisco di immaginare ciò che è avvenuto all’interno delle camere a gas, non facendo altro che seguire con lo sguardo i vivi che vi entravano per morire soffocati” (p. 482). Qui siamo in pieno pathos. Ne La Nuit non si trova alcuna menzione delle “camere a gas”; Wiesel lì ci racconta che ad Auschwitz come a Buchenwald è all’aria aperta, nel fuoco dei bracieri, che i Tedeschi sterminavano gli ebrei. Nella traduzione tedesca del suo libro, le “camere a gas” fanno irruzione: in quindici occasioni il traduttore ha inserito la parola “gas” laddove l’autore non l’aveva fatto (vedere: “Un grand faux témoin: Elie Wiesel (suite)” nei miei Écrits révisionnistes (1974-1998), p. 1526-1529). È François Mauriac che, nella sua prefazione, aveva parlato della “camera a gas” nonché del “forno alimentato da creature viventi” e, per cominciare, aveva ricordato “questi vagoni imbottiti di bambini” (p. 10; qui si sarà notata la parola “imbottiti” e la totale assenza di ogni bambina). L’intellettuale cattolico Mauriac (“Anus Dei”, secondo un’espressione attribuita a Paul Léautaud) era stato sedotto dal giovane Wiesel e non poteva rifiutargli nulla. La traduzione del libro in inglese non manca d’interesse (Night, Bantam Books, New York, nell’edizione tascabile del 1982, con, nel frontespizio, la seguente precisazione: “This edition contains the complete text of the original hardcover edition [1960]. NOT ONE WORD HAS BEEN OMITTED, xiv-111 p.). La prefazione di F. Mauriac è l’oggetto di alcune trasformazioni o attenuazioni significative: in tre riprese “Israeliano” o “israeliano” è tradotto con “Jew”; l’“occhio blu” del giovane Elie Wiesel si trasforma in “dark eyes”; “milioni di morti” si attenuano in “thousands of dead” e, soprattutto, “questi vagoni imbottiti di bambini” divengono “those trainloads of little children”. All’inizio del capitolo II di La Nuit si poteva leggere nell’edizione francese originale (1958) che, nei vagoni riempiti di ottanta persone, “liberati da ogni censura sociale, i giovani si lasciavano andare apertamente ai loro istinti e col favore della notte, si accoppiavano in mezzo a noi, senza preoccuparsi di nessuno, soli al mondo. Gli altri facevano finta di non veder nulla”. Nelle edizioni più recenti, ad esempio nel 2007, “si accoppiavano” è diventato “si toccavano”. Le traduzioni in inglese hanno talvolta conservato “to copulate” (The Night Trilogy, edizione rilegata, Harper Collins Canada, 1997 [15a stampa] [1a ed. 1987]) ed altre hanno scelto “to flirt”. Con Elie Wiesel, o che parli o che scriva, le trasformazioni e gli imbrogli si incontrano ad ogni angolo di strada.

Durante tutta la sua esistenza pubblica “il papa della religione dell’Olocausto” ha supplito al fallimento degli storici ufficiali. Noi non abbiamo una sola prova, un solo documento per provare “l’Olocausto” ma abbiamo le prestazioni del clown Elie Wiesel e dei suoi accoliti. Laddove un argomento storico così importante esigeva degli storici seri, noi non abbiamo che degli istrioni; Elie Wiesel è il primo di loro: un clown, un istrione coronato da un Premio Nobel.

Una buona novella per la povera umanità

Grazie ad Internet, le acquisizioni e le vittorie del revisionismo vanno ad essere infine alla portata del mondo intero. Per E. Wiesel ed i suoi emuli, per le organizzazioni ebraiche nel loro insieme, per i sionisti e lo Stato d’Israele, la novella è cattiva ma, per la comune umanità, essa è buona. Ritenuta capace di ogni orrore possibile, l’umanità non ha commesso l’orrore supremo che sarebbe consistito nel voler freddamente sterminare tutta una “razza”, in particolare in vere e proprie fabbriche di morte. Questo “crimine dei crimini” non è stato commesso: la Germania non ha commesso l’irreparabile. Essa è stata atrocemente calunniata. Si è giunti ad uccidere persino la sua anima? Il futuro ce lo dirà.

Durante 66 anni, partendo dal principio che questo orrore senza precedenti s’era incontestabilmente prodotto, siamo stati sommersi dalle stesse antifone: “Come il paese di Goethe e di Beethoven, la patria di tanti grandi spiriti, di sapienti, di benefattori dell’umanità ha potuto commettere il crimine dei crimini?” o ancora: “Come ha potuto tacere il mondo? Come si spiega che il Papa Pio XII, così ostile ad Adolf Hitler, non abbia mai denunciato un tale crimine né durante né dopo la guerra?” o: “Come si spiega che né nelle loro dichiarazioni né nelle loro rispettive memorie Churchill, Eisenhower, de Gaulle, pur essendo spietati nelle loro denunce dei crimini del nazionalsocialismo, non abbiano mai menzionato queste camere a gas che erano per eccellenza l’arma di distruzione di massa degli ebrei?” o: “Come si spiega che tanti ebrei – chiamati per derisione “ebrei bruni” – abbiano accettato nei paesi occupati dall’armata tedesca o nei ghetti o nei campi di collaborare con i Nazisti?” o infine: “Che significa questo silenzio generale delle nazioni e, in particolare, quello della Svizzera e quello del Comitato internazionale della Croce Rossa di fronte a questo Olocausto in quel momento in corso?”. Queste domande ed altre della stessa natura hanno una risposta: il crimine dei crimini non è stato commesso. Gli ebrei sono stati trattati dalla Germania nazional-socialista come dei nemici dichiarati o potenziali ma essi non sono mai stati destinati allo sterminio fisico: durante una guerra totale in cui milioni di civili sono morti, molti civili ebrei sono morti ma molti sono sopravvissuti. Più di sessantacinque anni dopo la guerra attendiamo sempre delle stime che possano essere verificate.

Dopo la guerra i sopravvissuti o i miracolati ebrei si sono contati a milioni, e questo fino al punto di popolare un nuovo Stato, quello di Israele, e di disperdersi in una cinquantina di paesi del vasto mondo.

I tempi cambiano in fretta e profondamente

L’“Olocausto” passerà alla storia come una delle più favolose imposture di tutti i tempi. Lo Stato d’Israele non ha dovuto fin qui la sua sopravvivenza che a questa impostura che, ai suoi occhi, giustifica la rapina di un territorio, un crudele apartheid e la guerra perpetua: questo Stato si avvia, anch’esso, alla propria rovina. Le organizzazioni ebraiche della diaspora hanno fallito. La loro arroganza, le loro pressioni, i loro modi di procedere di ricattatori, i loro costanti appelli alla repressione contro coloro che aprono, uno dopo l’altro, le scatole nere dell’“Olocausto” non hanno potuto impedire lo sviluppo attraverso il mondo d’uno scetticismo e d’una stanchezza generalizzata nei riguardi dei racconti che illustrano il preteso carattere eccezionale dell’incomparabile sofferenza ebraica. Gli ebrei nel loro insieme hanno avuto dei malvagi pastori, che li conducono verso l’abisso. Essi farebbero bene ad ascoltare quelli di loro, per il momento in piccolo numero, che, a voce bassa o a voce alta, denunciano la Grande Impostura dell’Olocausto, la Grande Impostura dello Stato d’Israele ed i Grandi Falsi Testimoni del tipo di Elie Wiesel.

I revisionisti hanno scoperto le sinistre scatole nere dell’“Olocausto”, le hanno aperte e ce ne hanno decifrato il contenuto. Essi sono stati in grado di smascherare gli apostoli o i discepoli d’una religione secolare fondata sull’orgoglio, la menzogna, l’odio e la cupidigia. A tutti gli uomini, senza distinzione, i revisionisti possono arrecare un sollievo: essi ci insegnano che, benché capace di ogni orrore, ciononostante l’umanità non ha mai commesso l’innominabile massacro che, dopo parecchie generazioni, certuni le osano rimproverare ad ogni ora del giorno o della notte esigendo sempre più compensazioni finanziarie, sempre più privilegi. Eccoci oggi di fronte ad una religione secolare, quella dell’“Olocausto” o della “Shoah” che per sempre resterà nella storia come il disonore degli uomini. Questa religione è nata nel mondo occidentale, vi si è sviluppata con una rapidità fulminea ma già si avvia verso la sua decrepitezza. Il resto del mondo non la vuole e talvolta la rigetta espressamente. L’Occidente “giudeo-cristiano” dovrà rendersene conto e seguire l’esempio che gli offre il resto del mondo.

11 settembre 2011

Traduzione a cura di Germana Ruggeri 

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[1] Le parti in corsivo non figurano nell’edizione inglese. Secondo un ricercatore americano, la traduttrice, Marion Wiesel, moglie di Elie Wiesel, aveva già per il passato deliberatamente alterato la traduzione di alcune parole e, in parecchi passi de La Nuit, essa aveva fatto uso di questa pratica per rettificare le confusioni nella cronologia del racconto. Questo ricercatore, che padroneggia perfettamente il francese, ci informa ugualmente che, come è qui il caso, Marion Wiesel ha talvolta scelto di omettere alcune parole o alcune frasi nell’idea che una traduzione fedele offrirebbe il risveglio al lettore di lingua inglese che scoprirebbe che dopo tutto E. Wiesel non è un testimone degno di fede. [V. Warren B. Routledge, Elie Wiesel, un grand faux témoin, La Sfinge, Roma 2014 – nota dell’editore.]