“Camere a gas: Verità o Menzogna?” Intervista al Professor Robert Faurisson – Storia Illustrata, agosto 1979, n° 261
realizzata da Antonio Pitamitz
[Questa intervista è stata corretta ed annotata dall’autore per l’edizione in Serge Thion, Vérité Historique ou Vérité Politique? (La Vieille Taupe, Parigi 1980, p. 171-212). Alcune correzioni di forma vi sono state apportate dall’autore nel 1997 – NdR d’Écrits révisionnistes (1974-1998), opera in cui l’originale del presente testo si trova alle pagine 155-194].
Storia – Signor Faurisson, da qualche tempo in Francia, e non solo in Francia, Lei è al centro di un’aspra polemica per certe Sue affermazioni su quella che rimane una delle pagine più buie della storia della Seconda Guerra Mondiale. Ci riferiamo allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. In particolare una delle Sue affermazioni appare tanto netta quanto incredibile. È vero che Lei nega che le camere a gas siano mai esistite?
Faurisson – È esatto. In effetti io dico che queste famose “camere a gas” omicide non sono altro che una frottola di guerra. Questa invenzione della propaganda di guerra è paragonabile alle leggende sulla “barbarie teutonica” diffuse durante la Prima Guerra Mondiale. Già allora i Tedeschi vennero accusati di crimini del tutto immaginari: a bimbi belgi sarebbero state tagliate le mani, dei Canadesi crocifissi, cadaveri trasformati in sapone[1] … Peraltro, su questo terreno gli stessi Tedeschi facevano, suppongo, buona concorrenza ai Francesi…
I campi di concentramento tedeschi sono realmente esistiti, ma tutti ben sanno che questa non è un’originalità tedesca. I forni crematori sono essi pure esistiti in certi campi, ma la cremazione non è un fatto più grave o più criminale dell’inumazione. I forni crematori costituivano persino un progresso dal punto di vista sanitario nel caso di rischi di epidemie. Il tifo ha imperversato in tutta l’Europa in guerra. La maggior parte dei cadaveri che con tale compiacimento ci vengono mostrati in foto sono chiaramente cadaveri di tifici. Queste foto dimostrano il fatto che degli internati – e talvolta anche dei guardiani – sono morti di tifo. Non provano nient’altro. Insistere sul fatto che talvolta i Tedeschi usavano dei forni crematori non è cosa molto onesta. Così facendo si punta sulla repulsione o sulI’oscura inquietudine della gente abituata all’inumazione e non alla cremazione. Immaginatevi una qualsiasi popolazione dell’Oceania abituata a bruciare i suoi morti, e ditele che noi interriamo i nostri; apparirete loro come una specie di selvaggio. Forse vi sospetteranno addirittura di mettere sotto terra delle persone “più o meno vive”.
Si dà prova di completa disonestà quando ci si presentano, allo stesso modo, come delle “camere a gas” omicide le autoclavi destinate in realtà alla disinfezione degli abiti con il gas. Questa accusa, mai chiaramente formulata, è stata abbandonata, ma in alcuni musei o in alcuni libri si osa ancora mostrare la foto di una di queste autoclavi situate a Dachau, con davanti ad essa un soldato in uniforme americana che sta decifrando… l’orario delle gasazioni![2]
Un’altra forma di gasazione è realmente esistita nei campi tedeschi; è la gasazione degli edifici per sterminarvi i parassiti. Veniva allora impiegato quel famoso Zyklon B sul quale si è costruita una fantastica leggenda. Lo Zyklon B, la cui licenza data dal 1922[3], è utilizzato ancor oggi, in particolare nella disinfestazione di immobili, baraccamenti, silos, navi, ma anche per la distruzione delle tane di volpe o di altri animali nocivi.[4] È molto pericoloso da maneggiare poiché, come indica la lettera “B”, si tratta di “Blausaure“, cioè di acido blu, o acido cianidrico, chiamato anche acido prussico. Tra l’altro, c’è anche da rilevare che i Sovietici, ingannandosi sul senso di questa lettera, hanno accusato i Tedeschi di avere ucciso dei deportati con dello Zyklon A e con dello Zyklon B![5] [Rettifica del 1997: esistevano diverse categorie di Zyklon, designate dalle lettere “A”, “B”, “C”, “D”. I Sovietici avevano dunque ragione di parlare di “Zyklon A”.]
Ma veniamo alle cosiddette “camere a gas” omicide. Fino al 1960 ho creduto alla realtà di questi macelli umani dove, secondo metodi industriali, i Tedeschi avrebbero ucciso degli internati in quantità industriali. Poi ho saputo che certi autori giudicavano contestabile la realtà di queste “camere a gas”: tra questi, Paul Rassinier, che era stato deportato a Buchenwald e a Dora. Questi autori hanno finito per formare un gruppo di storici che si definiscono “revisionisti”. Ho studiato le loro argomentazioni. Naturalmente, ho studiato anche le argomentazioni degli storici ufficiali. Questi ultimi credono alla realtà dello sterminio nelle “camere a gas”. Sono, in un certo senso, “sterminazionisti”.[6] Per molti anni ho minuziosamente confrontato gli argomenti degli uni e degli altri. Sono andato ad Auschwitz, a Majdanek e allo Struthof. Ho cercato, ma invano, anche una sola persona che mi potesse dire: “Sono stato internato in tale campo. Ci ho visto con i miei occhi un edificio che era sicuramente una camera a gas”. Ho letto molti libri e documenti. Per anni ho studiato gli archivi del centro di documentazione ebraica contemporanea (CDJC, Centre de Documentation Juive Contemporaine) di Parigi. Va da sé che mi sono interessato in particolare ai processi detti di “crimini di guerra”. Un’attenzione del tutto particolare ho rivolto a quelle che mi venivano presentate come “confessioni” di SS o di qualsiasi altri Tedeschi. Non vi tedierò enumerandovi i nomi di tutti gli specialisti che ho consultato, ma voglio ricordare una cosa, peraltro curiosa. Spesso bastava qualche minuto di conversazione perché gli “specialisti” in questione dichiarassero: “Sappia che io non sono uno specialista in camere a gas”. E, cosa ancora più curiosa, a tutt’oggi non esiste né libro, né articolo della scuola “sterminazionista” sulle “camere a gas”. Sono cosciente che mi si potrebbero forse citare alcuni titoli, ma questi titoli traggono in inganno.[7] In realtà, nella formidabile montagna di scritti consacrati ai campi tedeschi, non esiste nulla su ciò che costituisce la loro originalità intrinsecamente perversa! Nessuno “sterminazionista” ha scritto sulle “camere a gas”. Tutt’al più si può dire che Georges Wellers, del CDJC, ha tentato di parlarne cercando di perorare la veridicità parziale del documento Gerstein sulla “camera a gas” di Belzec.[8]
Invece, i revisionisti hanno scritto abbastanza su queste “camera a gas”, per dire che la loro esistenza era dubbia o per affermare che era decisamente impossibile. La mia opinione personale è la stessa di questi ultimi. L’esistenza delle “camere a gas” è radicalmente impossibile. Le mie ragioni sono innanzitutto quelle accumulate dai revisionisti nelle loro pubblicazioni. In seguito, sono anche quelle che io stesso ho trovato e che qualificherei materiali, bassamente e scioccamente materiali.
Ho pensato che bisognava cominciare dall’inizio. Voi certo sapete che in generale ci si mette molto tempo ad accorgersi che si sarebbe dovuto cominciare dall’inizio. Mi son detto che noi tutti parlavamo di “camere a gas” come se conoscessimo esattamente il senso di queste parole. Quanti di coloro che pronunciano frasi, discorsi o giudizi nei quali ricorre questa espressione di “camera a gas” sanno di che cosa parlano? Mi ci è voluto poco per rilevare che molte persone commettevano un errore dei più grossolani. Queste persone si rappresentavano una “camera a gas” come una realtà in fondo assai prossima ad una semplice camera da letto sotto la cui porta passasse del gas domestico. Costoro dimenticavano che un’esecuzione con il gas è, per definizione, profondamente differente da una semplice asfissia suicida o accidentale. Nel caso di un’esecuzione bisogna evitare accuratamente qualsiasi rischio di malessere, d’avvelenamento o di morte per gli esecutori e i loro assistenti. È un rischio che bisogna escludere prima, durante e dopo l’esecuzione. Le difficoltà tecniche che tutto ciò comporta sono notevoli. Ho voluto sapere come si gasavano i visoni d’allevamento, le tane delle volpi, come negli Stati Uniti si giustiziava con il gas un condannato a morte. Ho constatato che nella maggior parte dei casi veniva impiegato l’acido cianidrico. Ora, è proprio con questo gas che i Tedeschi gasavano i loro baraccamenti ed è con questo gas che avrebbero ucciso gruppi di uomini o intere folle. Ho dunque studiato questo gas. Ho voluto conoscerne l’impiego fatto in Germania e in Francia. Ho consultato testi ministeriali che regolano l’uso di questo prodotto altamente tossico. Ho avuto la fortuna di scoprire negli archivi industriali tedeschi raccolti dagli Alleati a Norimberga dei documenti sullo Zyklon B o acido cianidrico.
Poi ho riletto dettagliatamente alcune testimonianze, alcune confessioni o certe sentenze dei tribunali alleati o tedeschi sull’esecuzione di detenuti con lo Zyklon B. E lì ho subìto uno choc, lo stesso che proverete anche voi. Innanzi tutto vi leggerò la testimonianza o la confessione di Rudolf Höss;[9] quindi vi enuncerò qualche risultato della mia inchiesta, bassamente materiale, sull’acido cianidrico e sullo Zyklon B. (Sappia che R. Höss è stato uno dei tre comandanti di Auschwitz, tutti e tre catturati e interrogati dagli Alleati. Solo Höss ci ha rilasciato una “confessione” dovuta ai suoi carcerieri polacchi).
In questa confessione, la descrizione della gasazione è notevolmente breve e vaga, come – bisogna sapere – brevi e vaghi sono tutti coloro che affermano di aver assistito a questo genere di operazione (con, in più, molte e svariate contraddizioni su certi punti). R. Höss scrive: “Una mezz’ora dopo aver lanciato il gas si apriva la porta e si metteva in funzione l’apparecchio di ventilazione. Si cominciava immediatamente a estrarre i cadaveri”. Richiamo la vostra attenzione sulla parola “immediatamente”; in tedesco “sofort“. R. Höss aggiunge che la squadra incaricata di estrarre due mila cadaveri dalla “camera a gas” e di manipolarli fino ai forni crematori faceva questo lavoro “mangiando e fumando”; dunque, se ben comprendo, senza portare maschera antigas. Questa descrizione è un’offesa al buon senso perché implica la possibilità di entrare senza precauzione alcuna in un locale saturo di acido cianidrico per manipolarvi (a mani nude?) due mila cadaveri cianidrizzati sui quali è probabile vi siano resti del gas letale.[10] Del gas deve probabilmente restare nei capelli (che pare venissero rasati dopo l’operazione), nelle mucose e anche tra i cadaveri ammucchiati. Qual è quel ventilatore super-potente capace di far sparire istantaneamente una tale quantità di gas fluttuante nell’aria o sedimentato un po’ ovunque? Anche se un tale ventilatore esistesse, sarebbe comunque necessario un test che, segnalando alla squadra la sparizione dell’acido cianidrico, la avverta che il ventilatore ha effettivamente compiuto il suo lavoro e che conseguentemente la via è libera. Ora, è evidente che nella descrizione di Höss abbiamo a che fare con un ventilatore magico che agisce istantaneamente e con una tale perfezione da non lasciare adito né a timori, né a verifiche.
Ciò che il semplice buon senso ci suggerisce è pienamente confermato dai documenti tecnici[11] afferenti allo Zyklon B e al suo impiego. Per gassare un baraccamento, i Tedeschi erano obbligati a prendere un gran numero di precauzioni: squadra a lungo addestrata e “diplomata” presso il fabbricante dello Zyklon B, materiale notevole e, in particolare, maschere con il filtro “J” (il più “severo” di tutte), evacuazione dei baraccamenti vicini, affissione di avvisi in più lingue con il teschio, esame minuzioso del locale per individuare le fessure e tapparle, occlusione di camini e condotte, ritirare le chiavi dalle porte. Le scatole di Zyklon B venivano aperte all’interno del locale. Quando si supponeva che il gas avesse ucciso i parassiti, allora cominciava l’operazione più delicata: quella dell’aerazione. Alcune sentinelle venivano postate a una certa distanza dalle porte e dalle finestre, le spalle al vento. Loro compito era di impedire, da lontano, a chiunque di avvicinarsi. La squadra, munita di maschera antigas, penetrava nell’edificio, apriva le finestre, stappava camini e fessure. Appena compiuta l’opera a un piano, la squadra doveva uscire, togliersi le maschere e, per dieci minuti, respirare all’aria aperta. Doveva quindi rimettersi le maschere e portarsi all’altro piano. Una volta finito questo lavoro, bisognava attendere venti ore. In effetti, poiché lo Zyklon B è “difficile da ventilare visto che aderisce alle superfici”, solo una ventilazione naturale e molto lunga poteva venirne a capo. Questo era perlomeno il caso di volumetrie ampie come quelle di una baracca a uno o a due piani; in quanto lo Zyklon B, impiegato talvolta in autoclave (volume di 10 m3), era invece ventilato. Al termine delle venti ore, la squadra ritornava con la maschera antigas, chiudeva le aperture, quindi, se possibile, portava la temperatura dell’ambiente a 15°C. Poi, usciva, per ritornare dopo un’ora, sempre munita di maschera, e verificare, a mezzo di una carta che virava al blu in presenza di acido cianidrico, che il locale fosse nuovamente agibile. Ecco quindi che un locale che era stato gassato era accessibile senza maschera antigas solo dopo un minimo di ventuno ore. Per quanto riguarda la legge francese[12] relativa all’uso dell’acido cianidrico, essa stabilisce questo minimo a ventiquattro ore.
Possiamo dunque vedere che in assenza di un ventilatore magico, capace di espellere istantaneamente un gas “difficile da ventilare visto che aderisce alle superfici”, il macello umano chiamato “camera a gas” sarebbe stato inaccessibile per quasi una giornata. I suoi muri, il suolo, il soffitto durante tutto questo tempo avrebbero ritenuto delle particole di un gas dagli effetti fulminanti per l’uomo. E che dire dei cadaveri? Questi cadaveri non avrebbero potuto fare a meno di impregnarsi di gas allo stesso modo di quei cuscini, materassi e coperte che gli stessi documenti tecnici concernenti l’uso dello Zyklon B ci rivelano che dovevano essere portati all’aria aperta per essere battuti per un’ora con tempo secco, o per due ore con tempo umido. Dopo di che venivano impilati gli uni sugli altri e di nuovo battuti se il test di carta virava al blu.
Poiché l’acido cianidrico è infiammabile ed esplosivo, come era possibile usarlo in prossimità della bocca dei forni crematori? Come è che si poteva penetrare nella “camera a gas” fumando?
Per non parlare delle innumerevoli impossibilità tecniche o materiali che per soprammercato si scoprono quando ci si reca ad Auschwitz o ad Auschwitz-Birkenau per esaminare la collocazione e le dimensioni delle cosiddette “camere a gas”. D’altronde, come può scoprirlo chi ficca il naso negli archivi del museo polacco di Auschwitz, questi locali in realtà non erano che delle “camere fredde”, del tutto caratteristiche per architettura e per dimensioni. È così che a Birkenau la presunta “camera a gas” del Krema-ll, di cui si vedono solo delle rovine, era in realtà una “camera fredda”, interrata (per proteggerla dal calore), d’una lunghezza di 30 metri e di una larghezza di 7 metri (2 m per un cadavere + 3 m al centro per il movimento dei carrelli + 2 m per un altro cadavere). La porta, i disimpegni, il piccolo montacarichi versa la sala dei crematori, tutto ciò era di dimensioni lillipuziane in rapporto a quanto lascia supporre il racconto di Höss.[13] Secondo lui, la “camera a gas” normalmente conteneva due mila vittime all’inpiedi, ma avrebbe potuto contenerne tre mila. Immaginate un po’: tre mila persone su 210 m2? In altre parole, per fare un paragone, 286 persone in piedi in un locale di 5 metri x 4 metri! E non ci si venga a dire che i Tedeschi prima di partire hanno fatto saltare “camere a gas” e forni crematori per nascondere le tracce dei pretesi crimini. Quando si vuole cancellare le tracce di un’installazione necessariamente molto sofisticata, la si smantella minuziosamente, pezzo per pezzo, per non lasciare dietro di sé il minimo elemento d’accusa. Distruggerla con l’esplosivo sarebbe un’ingenuità. In questo caso sarebbe sufficiente rimuovere i blocchi di cemento per scoprire un tale reperto accusatore. Proprio i Polacchi dell’attuale museo di Auschwitz hanno raccolto alcune vestigia dei “Krema” (termine con il quale si indicano i complessi formati da crematori e dalle pretese “camere a gas”). Ora, tutti i reperti che vengono mostrati ai turisti attestano l’esistenza dei forni crematori, escludendo qualsiasi altra cosa.[14] Se sono i Tedeschi che hanno fatto saltare con la dinamite queste istallazioni come spesso viene fatto da un esercito in ritirata, ciò significa che queste istallazioni non nascondevano proprio nulla di sospetto. Invece, a Majdanek, hanno lasciato intatte delle istallazioni che dopo la guerra sono state battezzate con il nome di “camere a gas”.
Negli Stati Uniti, la prima esecuzione capitale con gas ebbe luogo l’8 febbraio 1924 nella prigione di Carson City (Nevada). Due ore dopo l’esecuzione si rilevavano ancora tracce di veleno nella corte della prigione. Il signor Dickerson, governatore della prigione, dichiarò: “Per quanto concerne il condannato, il metodo è certamente il più umano tra quanti fino ad ora applicati”, ma, aggiunse: “Rifiuterò questo metodo per il pericolo che fa correre a tutti i testimoni”.[15] Assai di recente, il 22 ottobre 1979, Jesse Bishop è stato gasato in quella prigione. È negli anni 1936/1938 che gli Americani sembrano aver messo a punto le proprie camere a gas. Questo tipo di esecuzione è obbligatoriamente molto complicato.[16] Però gli Americani gasano solo un prigioniero alla volta (è accaduto che alcune loro camere a gas dispongano di due sedie per l’esecuzione di due fratelli). Inoltre, questo prigioniero è completamente immobilizzato. Viene avvelenato dall’acido cianidrico (in realtà da palline di cianuro di sodio che, cadendo in una scodella di acido solforico e di acqua distillata, provocano la liberazione di vapori di acido cianidrico). In quaranta secondi circa il condannato si assopisce e in qualche minuto muore. Questo gas non provoca, apparentemente, alcun dolore. Come nel caso dello Zyklon B, è l’evacuazione del gas che porrà problemi. In questo caso non si tratta di indurre una ventilazione naturale di quasi 24 ore perché, in ogni modo, la disposizione degli ambienti non lo permetterebbe senza gravi rischi per i guardiani ed i detenuti della prigione. Allora come procedere, essendo d’altronde questo gas di difficile ventilazione? La soluzione che s’impone è di trasformare questo acido in un sale che verrà in seguito lavato con abbondantissima acqua. L’ammoniaca servirà di base. Quando l’acido cianidrico sarà così sparito, almeno quasi completamente, una spia avvertirà del fatto il medico ed i suoi aiutanti che si trovano dall’altra parte del vetro. Questa spia è la fenolftaleina, posta in scodelle disposte in diversi punti del piccolo locale, la quale vira al rosso quando non c’è più acido. Un sistema di ventilatori orientabili spazzerà quindi i vapori di ammoniaca verso un bocchettone di aspirazione. Il medico ed i suoi aiutanti entreranno quindi nel locale muniti di maschera antigas, e calzando guanti di caucciù. Il medico arruffa la capigliatura del condannato per cacciarne eventuali resti di acido cianidrico. È solo dopo un’ora che le guardie potranno entrare nel locale. Nel frattempo il corpo del condannato sarà lavato, così come il locale. Il gas residuale è stato espulso attraverso un alto camino sopra la prigione. E poiché le guardie abitualmente postate nelle torri di sorveglianza della prigione corrono dei rischi, ad ogni esecuzione vengono fatte scendere. E sorvolo sulle necessità di un’ermeticità totale della camera a gas: stacci, vetri “Herculite” estremamente spessi, sistema per fare il vuoto, valvole a mercurio, ecc.
Una gasazione non è operazione che si possa improvvisare. Se i Tedeschi avessero deciso di gassare milioni di persone, avrebbero avuto bisogno di mettere a punto un meccanismo formidabile. Ci sarebbe voluto un ordine generale, che non è mai stato trovato, delle istruzioni, degli studi, ordini, piani che non si sono mai visti. Sarebbero state necessarie riunioni di esperti: architetti, chimici, medici, specialisti delle più diverse tecnologie. Sarebbe stato necessario reperire fondi e ripartirli, operazione che in uno Stato come quello del Terzo Reich avrebbe lasciato numerose tracce (se si pensa che noi sappiamo quasi al pfennig quanto è costato il canile di Auschwitz o le piante di lauro ordinate ai vivai). Sarebbero stati necessari ordini di missione. Non si sarebbe fatto di Auschwitz e di Birkenau dei campi dove l’andirivieni era tale che il modo migliore di far fronte alle frequenti fughe di detenuti era quello di tatuar loro sul braccio un numero di matricola.[17] Non si sarebbe permesso che lavoratori civili e ingegneri si mischiassero ai detenuti. Non si sarebbero autorizzati i Tedeschi del luogo ad andare in permesso o a ricevere al campo membri della famiglia. E soprattutto non si sarebbero liberati dei detenuti che, scontata la pena, rientravano in patria. Fatto, quest’ultimo, che è stato rivelato qualche anno fa da Louis De Jong, direttore dell’istituto di storia della seconda guerra mondiale di Amsterdam, dopo che a lungo gli storici lo hanno tenuto nascosto.[18] La recente pubblicazione che negli Stati Uniti è stata fatta delle fotografie aeree[19] di Auschwitz dà peraltro il colpo di grazia alla leggenda di questo sterminio: persino nell’estate 1944, nel momento in cui più massiccio era l’arrivo degli ebrei ungheresi, non si nota alcun rogo umano e nessuna folla nei pressi del crematorio (ma un portone aperto e un giardino ben tracciato), nessun fumo sospetto (e ciò mentre i camini di questi crematori avrebbero, si afferma, addirittura sputato giorno e notte fumo e fiamme visibili a diversi chilometri di distanza).
Terminerò con quello che chiamerei il criterio della falsa testimonianza per ciò che concerne le “camere a gas”. Ho rilevato che tutte queste testimonianze, per vaghe o discordi che siano sul resto, s’accordano almeno su un punto: la squadra incaricata di ritirare i cadaveri dalla “camera a gas” penetrava nel locale sia “immediatamente”, sia “poco dopo” la morte delle vittime. Io dico che questo punto da solo costituisce la pietra di paragone delle false testimonianze, perché vi è qui un’impossibilità fisica totale. Se incontrate qualcuno che crede alla realtà delle “camere a gas”, domandategli come, secondo lui, vi si potevano estrarre i cadaveri per far posto all’infornata successiva.
Storia – Come può affermare tutto ciò dopo quanto è stato detto e scritto in 35 anni? Dopo quanto hanno raccontato i superstiti dei campi, dopo i processi ai criminali di guerra, dopo Norimberga? Su quali prove e documenti basa questa Sua affermazione?
Faurisson – Molti errori storici sono durati più di trentacinque anni.
Quanto alcuni sopravvissuti hanno raccontato costituisce un insieme di testimonianze, fra altre testimonianze. Delle testimonianze non sono delle prove. In quanto a quelle dei processi contro i “criminali di guerra”, devono essere accolte con particolare diffidenza. Se non mi sbaglio, in trentacinque anni non un solo testimone è stato perseguito per falsa testimonianza, il che significa dare una garanzia esorbitante a chiunque desidera testimoniare sui “crimini di guerra”. Allora così si spiega il fatto che alcuni tribunali abbiano potuto stabilire l’esistenza di “camere a gas” in punti della Germania in cui si è finito per riconoscere che non ce n’erano state mai: per esempio, in tutto l’Antico Reich.
Le sentenze emesse a Norimberga hanno un valore molto relativo, poiché dei vinti sono stati giudicati dai loro vincitori senza la minima possibilità di interporre appello. Gli articoli 19 e 21 dello statuto di quel tribunale politico dava cinicamente a quella assise il diritto di fare a meno di prove solide, e autorizzava addirittura il ricorso al “si dice”.[20] Tutti gli altri processi per “crimini di guerra” si sono in seguito ispirati ai giudizi di Norimberga. Ancora oggi in Germania i tribunali fondano il loro operato su quanto essi pretendono sia stato stabilito a Norimberga. È così che per secoli hanno proceduto i tribunali che dovevano giudicare stregoni e streghe.
Sono esistite, almeno in apparenza, prove e testimonianze di gasazioni a Orianenburg, a Buchenwald, a Bergen-Belsen, a Dachau, a Ravensbruck, a Mauthausen. Professori, preti, cattolici, ebrei, comunisti hanno attestato l’esistenza di “camere a gas” in questi campi e delI’impiego di gas per uccidere dei detenuti. Per non fare che un esempio, Monsignor Piguet, vescovo di Clermont-Ferrand, ha scritto che dei preti polacchi erano passati per la “camera a gas” di Dachau.[21] Ora, oggi si riconosce che mai nessuno è stato gasato a Dachau.[22] C’è di meglio: dei responsabili di campi hanno confessato l’esistenza e il funzionamento di “camere a gas” omicide laddove in seguito si è dovuto riconoscere che niente di tutto ciò era esistito.[23] Per Ravensbrück, il comandante del campo (Suhren), il suo secondo (Schwarzhuber) e il medico del campo (il dott. Treite) hanno confessato l’esistenza di una “camera a gas” e ne hanno persino descritto, in modo vago, il funzionamento. Sono stati messi a morte o si sono suicidati. Stesso scenario per il comandante Ziereis a Mauthausen, il quale, in punto di morte, avrebbe fatto delle confessioni anche lui, già nel 1945.[24] Non si creda che le confessioni dei responsabili di Ravensbrück siano state strappate dai Russi o dai Polacchi. È l’apparato giudiziario inglese o francese che ha ottenuto queste confessioni. Circostanza aggravante: le ottenevano ancora anni dopo la fine della guerra. È stato fatto tutto il necessario affinché fino alla fine, fino al 1950, un uomo come Schwarzhuber collaborasse con i suoi inquisitori, o con i suoi giudici istruttori o i suoi giudici di tribunale.
Più nessun serio storico sostiene che delle persone siano state gassate in un qualunque campo dell’Antico Reich. Ora ci si accontenta solo di alcuni campi situati attualmente in Polonia. Il 19 agosto 1960 costituisce una data importante nella storia del mito delle “camere a gas”. Quel giorno, il giornale Die Zeit ha pubblicato una lettera che ha intitolato: “Nessuna gasazione a Dachau”.[25] Dato il contenuto della lettera, per essere del tutto onesto il giornale avrebbe dovuto intitolarla: “Nessuna gasazione in tutto l’Antico Reich”, cioè nella Germania delle frontiere del 1937. Questa lettera era del dott. Martin Broszat, diventato nel frattempo direttore dell’istituto di storia contemporanea di Monaco. Il dott. Broszat è un antinazista convinto, e fa parte degli storici “sterminazionisti”. Egli ha creduto all’autenticità del “diario” di R. Höss, che ha pubblicato nel 1958 con gravi tagli del testo nei passaggi in cui R. Höss aveva “un po’ tanto” esagerato probabilmente per obbedire alle suggestioni dei suoi carcerieri polacchi.[26] In poche parole, il dott. Broszat il 19 agosto 1960 ha dovuto ammettere che non c’erano state gasazioni in tutto l’Antico Reich. Aggiungeva anche, in modo contorto, che non vi erano state gasazioni innanzitutto (?)[27] che in qualche punto scelto in Polonia, tra cui Auschwitz. E questo, a quanto mi risulta, hanno finito per ammetterlo con lui anche tutti gli storici ufficiali. Io deploro che il dott. Broszat si sia contentato di una lettera, mentre si imponeva una comunicazione scientifica insieme a spiegazioni dettagliate. Si doveva spiegare perché prove, testimonianze e confessioni considerate fino ad allora come inattaccabili perdevano improvvisamente qualsiasi valore. Sono quasi vent’anni che aspettiamo le spiegazioni del dott. Broszat.[28] Ci sarebbero preziose per determinare se le prove, testimonianze e confessioni che possediamo sulle gasazioni di Auschwitz o di Treblinka hanno più valore delle prove, testimonianze e confessioni che possediamo sulle false gasazioni di Buchenwald o di Ravensbrück.[29] Nell’attesa, è estremamente curioso che gli elementi raccolti soprattutto da tribunali francesi, inglesi e americani abbiano d’un tratto perso ogni loro valore, mentre gli elementi in mano soprattutto dei tribunali polacchi e sovietici sullo stesso soggetto lo conservino.
Nel 1968 è la “camera a gas” di Mauthausen (in Austria) che doveva a sua volta essere dichiarata una leggenda da uno storico “sterminazionista”: Olga Wormser-Migot. Guardate a questo proposito, nella sua tesi su Le système concentrationnaire nazi, le pagine intitolate “Le problème des chambres à gaz” (Il problema delle camere a gas).[30] Peraltro, soffermiamoci su questa formula. Per ammissione stessa degli “sterminazionisti”, esiste un “problema delle camere a gas”.
A proposito delle false confessioni, un giorno ho chiesto allo storico Joseph Billig (addetto al CDJC) come poteva lui, da parte sua, darne spiegazione. Billig aveva fatto parte della delegazione francese al processo di Norimberga. Vi do la sua risposta. Si trattava, secondo lui, di “fenomeni psicotici”! Per quel che mi riguarda, ho una spiegazione da proporre per questi pretesi “fenomeni psicotici” come pure per “l’apatia schizoide” di R. Höss il giorno della sua deposizione davanti al tribunale di Norimberga: R. Höss è stato torturato dai suoi carcerieri inglesi.[31] È stato “interrogato con il nerbo e con l’alcool”. Ai processi detti “di Dachau” gli Americani hanno abominevolmente torturato altri accusati tedeschi, come doveva segnatamente rivelarlo una commissione d’inchiesta.[32]
Però la tortura è molto spesso superflua. Molteplici sono infatti i modi di intimidazione. La formidabile riprovazione universale che viene fatta pesare sugli accusati nazisti conserva ancora oggi quasi tutta la sua forza. Quando “l’anatema esplode in un’unanimità religiosa degna delle grandi comunioni medievali”, non rimane che inchinarsi, soprattutto se gli avvocati si mettono di mezzo e sostengono che delle concessioni sono necessarie. Mi ricordo del mio odio personale per i Tedeschi durante la guerra e subito dopo la fine della guerra: un odio incandescente che credevo spontaneo, ma che con il trascorrere del tempo mi accorsi che mi era stato insufflato. Esso veniva dalla radio inglese, dalla propaganda di Hollywood e dalla stampa staliniana. Non avrei avuto pietà per un Tedesco che mi avesse detto che era stato guardiano di un certo campo e che non aveva visto alcuno dei massacri di cui allora tutti parlavano. Se fossi stato il suo giudice istruttore avrei ritenuto mio dovere di “farlo confessare”.
Da trentacinque anni il dramma di questo tipo di accusati tedeschi è paragonabile a quello degli stregoni e delle streghe del Medio Evo. Riflettiamo sul coraggio demenziale che sarebbe stato necessario a una di queste sedicenti streghe per osare di dire al tribunale: “La prova migliore che non ho avuto commercio con il diavolo è che, molto semplicemente, il diavolo non esiste”. La maggior parte delle volte, queste pretese streghe non potevano credere ai fatti che venivano loro rimproverati, ma condividevano o mostravano di condividere con i loro giudici-accusatori la credenza nel diavolo. Nello stesso modo, l’Ing. Dürrfeld di Auschwitz, all’inizio affermava ai suoi giudici che non aveva mai sospettato personalmente dell’esistenza di “camere a gas” nel suo campo, poi, aderendo alla credenza del giorno, dichiarò al tribunale la propria indignazione per questo “marchio d’infamia sul popolo tedesco”.[33] La strega giocava d’astuzia con i suoi giudici, come i Tedeschi, ancora oggi al processo di Düsseldorf, giocano di astuzia con i loro a proposito di Majdanek. La strega dichiarava, per esempio, che quel tale giorno il diavolo c’era, ma che si trovava in cima alla collina, mentre lei era giù, ai piedi. L’accusato tedesco, da parte sua, si sforza dl dimostrare che non aveva nulla a che fare con le “camere a gas”. Talvolta arriva a dire persino che ha aiutato a spingere delle persone nella “camera a gas”, o ancora che gli si è fatto versare un prodotto attraverso una botola posta sul soffitto minacciandolo, se non obbediva, di giustiziarlo.[34] Spesso dà anche l’impressione di divagare. Gli accusatori pensano: “Eccone un altro che cerca di salvarsi le penne. Questi Tedeschi sono straordinari! Sembra che non abbiano mai saputo né mai visto niente”. La verità è che in effetti non hanno visto né saputo niente di ciò che si vuol far loro dire in materia di gasazioni.[35] Siamo noi, accusatori, che dobbiamo rimproverarci di questo modo di divagare, e non farne loro colpa, perché essi si muovono nel solo sistema di difesa che noi lasciamo loro. E nel fatto che adottino questo sistema anche gli avvocati hanno una grave responsabilità: parlo di quelli che sanno o sospettano di essere davanti a un’enorme menzogna, ma preferiscono, sia nel loro proprio interesse, sia in quello del loro cliente, non sollevare questo problema. L’avvocato di Eichmann non credeva all’esistenza delle “camere a gas”, ma al processo di Gerusalemme si è ben guardato dallo scoprire gli altarini.[36] Non glielo si può rimproverare. Credo sapere che lo statuto di quel tribunale permettesse di sollevare l’avvocato dal diritto di difendere il suo cliente se si fosse prodotto un incidente “insostenibile”, o definibile con un termine equivalente. Una vecchia ricetta degli avvocati, resa talvolta necessaria dai bisogni della difesa, è di perorare il verosimile piuttosto che il vero. Il vero talvolta è troppo difficile da far penetrare nell’animo dei giudici. Ci si contenterà allora del verosimile. Un esempio illustra molto bene questo fatto. Lo racconta l’avvocato Albert Naud, difensore di un tale Lucien Léger che tutta la stampa francese presentava come autore certo di un abominevole crimine. Lucien Lèger si proclamava innocente, e scelse per avvocato Albert Naud. Quando questi andò a trovarlo in prigione gli disse: “Léger, parliamoci chiaro! Se mi vuole come avvocato, dobbiamo ammettere la sua colpevolezza”. Affare fatto! Léger ebbe salva la testa. Qualche anno dopo Naud acquisì la convinzione che Léger era innocente, e si pentì terribilmente di averlo costretto a dichiararsi colpevole. Si batté con tutte le sue forze per ottenere la revisione del processo.[37] Troppo tardi. Morì senza ottenerla. In quanto a Léger, se è innocente, probabilmente pagherà fino alla fine dei suoi giorni l’abominevole atteggiamento della stampa e la cecità del suo avvocato.
Un tribunale non ha alcuna qualità per determinare la verità storica. Spesso gli stessi storici hanno notevoli difficoltà a distinguere il vero dal falso su un punto della storia. L’indipendenza dei giudici è forzatamente molto relativa. Come tutti noi essi leggono i giornali, si informano in parte anche attraverso la radio e la televisione. Libri e riviste presentano loro, come a noi tutti, “documenti” o “foto” di atrocità naziste. A meno che non possiedano una specifica formazione relativa all’esame critico di questo genere di documenti o di foto, essi cadranno nei più rozzi tranelli della propaganda orchestrata dai mezzi di comunicazione. D’altra parte, preoccupazione dei giudici è di far rispettare l’ordine pubblico, la moralità pubblica, certe norme e certi usi, certe credenze stesse della vita pubblica. Senza tener conto della preoccupazione di vedere il loro nome vilipeso nella stampa, tutto ciò non può che condurre, in materia di “crimini di guerra”, a giudizi che lo storico, per quanto lo riguarda, non è tenuto a fare suoi.
La giustizia si è giudicata da sé. In questo genere di processi nemmeno una volta si è pensato di fare una perizia di quella che si chiama “l’arma del delitto”. Quando si sospetta che una corda, un coltello, un revolver siano stati strumento di un crimine, si fa la perizia, benché siano oggetti che non hanno nulla di misterioso. Invece, nel caso delle “camere a gas”, in trentacinque anni non c’è stata una sola perizia. È vero che si parla di una perizia fatta dai Sovietici, ma possiamo immaginare con quale metro e, in ogni modo, sembra che il testo sia rimasto segreto.
Al processo di Francoforte, durato un anno e mezzo, dal dicembre 1963 all’agosto 1965, un tribunale ha condotto l’affare “dei guardiani di Auschwitz” senza ordinare una perizia dell’arma del crimine. Lo stesso vale per il processo di Majdanek a Düsseldorf e, poco dopo la fine della guerra, per quello dello Struthof in Francia. [Rettifica del 1997: Dovevo scoprire nel 1981 che una perizia del dott. René Fabre aveva concluso negativamente nel caso dello Struthof!] Questa assenza di perizie è tanto meno scusabile in quanto non un giudice, non un procuratore, non un avvocato potevano vantarsi di conoscere per esperienza la natura e il funzionamento di questi straordinari macelli umani. Eppure allo Struthof e a Majdanek, quelle “camere a gas” vengono presentate come fossero ancora allo stato originario. Perciò, sarebbe sufficiente esaminare sul posto “l’arma del crimine”. Ad Auschwitz le cose sono meno chiare. Al campo principale si lascia credere ai turisti che la “camera a gas” è autentica, ma, chiedendo insistentemente, le autorità del museo battono in ritirata e parlano di “ricostruzione” (che peraltro non è che una misera menzogna che si può facilmente smascherare con certi documenti di archivio). All’annesso campo di Birkenau vengono mostrate solo delle rovine di “camere a gas”, o qualcosa di meno, dei terreni che sarebbero stati occupati da “camere a gas”. Ma anche qui le perizie sono possibilissime. Ad un archeologo talvolta basta qualche piccolo indizio per conoscere la natura e la destinazione di un sito inabitato da diversi secoli. Per dare un’idea della condiscendenza dimostrata dagli avvocati del processo di Francoforte nell’anticipare l’accusa, ricordo che uno di essi si è persino fatto fotografare dai giornalisti mentre sollevava una botola (sic!) della sedicente “camera a gas” del campo principale di Auschwitz.[38] Dieci anni dopo il processo ho chiesto a questo avvocato che cosa gli aveva permesso di considerare che l’edificio in questione era una “camera a gas”. La sua risposta scritta è stata più che evasiva; assomiglia a quella datami dalle autorità del museo di Dachau quando chiesi su quali documenti basavano la loro affermazione che un certo locale del campo era una “camera a gas” incompiuta. Mi stupiva infatti il caso che uno potesse affermare che un locale incompiuto era destinato a diventare, una volta ultimato, qualcosa che non aveva mai visto in vita sua. Un giorno pubblicherò questa corrispondenza con queste autorità, e anche quella che ho avuto con i responsabili del comitato internazionale di Dachau a Bruxelles.
Lei mi chiede su quali prove e su quali documenti io fondo l’affermazione che le “camere a gas” non sono mai esistite. Credo di aver già ampiamente risposto. Aggiungerò che una buona parte di queste prove e di questi documenti sono… , quelli dell’accusa.[39] Basta rileggere bene i testi dell’accusa per accorgersi che l’accusa consegue il risultato contrario a quello ricercato. I testi di base sono i 42 volumi del grande processo di Norimberga [Rettifica del 1997: in francese, quarantuno volumi poiché manca il n° XXIII, ovvero quello che doveva contenere l’indice delle materie], i 15 volumi dei processi americani, i 19 volumi pubblicati sinora dall’università di Amsterdam, gli stenogrammi del processo Eichmann, diversi processi verbali di interrogatorio, i libri di Hilberg, di Reitlinger, d’Adler, di Langbein, di Olga Wormser-Migot, l’Encyclopaedia Judaica, il Mémorial di Klarsfeld (molto interessante per l’elenco dei falsi gassati), le pubblicazioni di diversi istituti. Ho lavorato soprattutto al centro di documentazione ebraica contemporanea di Parigi. Ne sono stato cacciato all’inizio del 1978 su iniziativa, in particolare, del signor Georges Wellers, quando si è saputo a quali conclusioni ero giunto sulle “camere a gas” e sul “genocidio”. Il CDJC è un organismo semipubblico: riceve denaro pubblico. Tuttavia, si arroga il diritto di cacciare coloro che non pensano come si deve. E lo dice!
Storia – Lei arriva addirittura a negare la volontà deliberata di sterminio degli ebrei da parte di Hitler. Anche ultimamente, durante un dibattito alla televisione della Svizzera italiana, Lei ha detto: “Hitler non ha mai fatto uccidere una persona in quanto ebrea”. Che cosa intende dire esattamente con questa frase, dalla quale peraltro si ricava che comunque Hitler avrebbe fatto uccidere degli ebrei?
Faurisson – Dico esattamente questo: “Mai Hitler ha ordinato né ammesso che qualcuno fosse ucciso a causa della sua razza o della sua religione”. Forse questa frase scandalizzerà qualcuno, ma io la credo vera. Hitler era anti-ebreo e razzista. [Il suo razzismo peraltro non gli impediva di nutrire ammirazione per gli Arabi e per gli Hindù. Era anche ostile al colonialismo. Il 7 febbraio 1945 dichiara ai suoi intimi: “I bianchi hanno portato a questi popoli [coloniali] il peggio, le piaghe del nostro mondo: il materialismo, il fanatismo, l’alcolismo e la sifilide. Per il resto, poiché quanto questi popoli già possedevano era superiore a ciò che potevano dar loro, essi non sono cambiati […]. In una sola cosa i colonizzatori sono riusciti: a suscitare ovunque l’odio”.[40]] [Rettifica del 1997: Il passaggio messo tra parentesi quadre si fonda sull’opera Le Testament politique de Hitler, descritto nella nota 40. Ora, dopo riflessione, quest’opera mi sembra essere un falso il cui responsabile potrebbe essere François Genoud, recentemente scomparso. Nella sua lunga prefazione, lo storico inglese H. R. Trevor-Roper afferma che “l’autenticità [di queste pagine] è indubitabile.” A mio avviso, si sbaglia.]
Hitler non è diventato antiebraico che relativamente tardi. Prima di dire e ripetere che gli ebrei sono “i grandi maestri della menzogna[41]“, era loro piuttosto favorevole. Scrive in Mein Kampf: “Le opinioni sfavorevoli diffuse sul loro conto mi ispiravano un’antipatia che talvolta si trasformava quasi in orrore”. Personalmente, conosco male Hitler e mi interessa poco, quanto poco mi interessa Napoleone Bonaparte. Se egli delirava, non vedo perché dovremmo delirare noi quando si tratta di lui. Sforziamoci di parlare di Hitler a mente fredda come quando parliamo di Amenophis-Akhenaton. Tra Hitler e gli ebrei c’è stata una guerra implacabile. È evidente che ciascuno addossa all’altro la responsabilità di questo conflitto. La comunità ebraica internazionale ha dichiarato guerra alla Germania il 5 settembre 1939; lo ha fatto nella persona di Chaim Weizmann, presidente del Congresso Ebraico Mondiale e futuro presidente dello Stato di Israele.[42] Prima ancora, dal 1933, l’ostilità della comunità ebraica internazionale si era manifestata con misure di boicottaggio economico contro la Germania nazista.[43] Va da sé che essa agiva così per ritorsione alle misure prese da Hitler contro gli ebrei tedeschi. Questo ingranaggio fatale doveva condurre, da una parte e dall’altra, a una guerra mondiale. Hitler diceva: “Gli ebrei e gli Alleati vogliono annientarci, ma saranno loro a essere annientati”, mentre gli Alleati e gli ebrei, da parte loro, dicevano: “Hitler e i nazisti, e i loro alleati, vogliono annientarci, ma saranno loro a essere annientati”. E così, per tutta la durata della guerra, i due campi si esaltano di proclami bellicosi e fanatici. Il nemico diventa una bestia da sgozzare. Pensate, a questo proposito, alle parole della Marsigliese: “Che un sangue impuro abbeveri i nostri solchi!”
Detto questo, gli Alleati che pure hanno fatto una guerra inesorabile ai nazisti e che, trentacinque anni dopo la fine della guerra, continuano una specie di “caccia al nazista”, tuttavia non sono mai arrivati a dichiarare che: “Un nazionalsocialista, per il fatto stesso di appartenere al partito nazionalsocialista, deve essere ucciso, si tratti di uomo, donna, bambino o vecchio”. Si può persino dire che Hitler, nonostante quanto ha accumulato contro gli ebrei, non ha mai decretato: “Ogni ebreo è da uccidere”, né tantomeno che: “Un ebreo, per il solo fatto di essere tale, è da uccidere”. Indubbiamente, in caso di rappresaglia contro “partigiani” o “terroristi”, quando i Tedeschi sceglievano gli ostaggi da mettere a morte, era meglio non essere ebreo, né comunista, né prigioniero di diritto comune, ma si trattava allora di un fatto ben noto relativo alla presa di ostaggi, come la si pratica da sempre ed ovunque.
Hitler ha fatto internare una parte degli ebrei europei, ma internare non significa sterminare. Non c’è stato né “genocidio” né “olocausto”. Qualsiasi campo di concentramento è una cosa pietosa oppure un’orrore, si tratti di un campo tedesco, russo, francese, americano, giapponese, cinese, vietnamita o cubano. Di questo fatto, pietoso od orribile che sia, vi sono diversi gradi, e certamente in tempo di guerra, di carestia, di epidemia, un campo di concentramento diventa ancora più orribile. Ma nel caso in questione nulla ci permette di dire che ci sono stati dei campi di sterminio, cioè dei campi dove la gente sarebbe stata messa per esservi uccisa.
Gli “sterminazionisti” sostengono che nell’estate del 1941 Hitler ha dato l’ordine di sterminare gli ebrei. Ma nessuno ha mai visto questo ordine. Esistono, per contro, sia delle parole di Hitler, sia delle misure prese dai suoi eserciti che implicano che un tale ordine non ha potuto essere dato. Il 24 luglio 1942, in un circolo ristretto di persone, ricordando che gli ebrei gli avevano dichiarato guerra per mezzo di Chaim Weizmann, disse che dopo la guerra avrebbe distrutto loro le città una dopo l’altra, precisando: “… se questo lerciume ebraico non sgombera e non emigra verso il Madagascar o verso qualche altro focolare nazionale ebraico”.[44] Da parte mia, vorrei sapere come si può conciliare questa “dichiarazione a braccio” con un ordine di sterminio dato una volta per sempre un anno prima. Ancora nel luglio 1944, sul fronte dell’Est, dove i soldati tedeschi combattono ferocemente contro i partigiani (ebrei o non, russi o comunisti, ucraini, ecc.), l’esercito dà ordini drastici perché i soldati tedeschi non partecipino a eccessi contro la popolazione civile, ebrei compresi. Altrimenti, c’è il tribunale militare.[45] Hitler incitava a lottare senza pietà in combattimento, soprattutto contro i partigiani, compreso, se necessario, contro donne e bambini che fossero con i partigiani o che apparentemente ne fossero complici. È un fatto che non ha indietreggiato (come gli Alleati, peraltro) davanti al sistema del prelievo di ostaggi. Ma non è andato oltre. Il giorno in cui i nostri mezzi di comunicazione si decideranno a infrangere certi tabù ed a consacrare ai “crimini di guerra” degli Alleati un millesimo del tempo che consacrano ai “crimini di guerra” dei vinti, gli ingenui avranno allora di che stupirsi. I “crimini” di Hitler assumeranno allora le loro giuste proporzioni in una prospettiva storica. Ora, è vero che ci parlano un po’ di Dresda e di Katyn. Io dico che Dresda e Katyn sono poca cosa in confronto alle deportazioni inflitte a milioni di Tedeschi delle minoranze delI’Est. È vero che lì non si trattava di “deportazioni” ma di… “trasferimenti”. Mi chiedo anche se gli Inglesi, che hanno consegnato i loro internati Russi ai Sovietici, non sono stati i campioni di tutte le categorie di “crimini di guerra”.[46]
Storia – Quali sono il Suo concetto e la Sua definizione di genocidio?
Faurisson – lo chiamo “genocidio” il fatto di uccidere degli uomini in ragione della loro razza. Hitler non ha commesso “genocidio” più di quanto non abbiano fatto Napoleone, Stalin, Churchill o Mao. Roosevelt ha internato in campi di concentramento cittadini americani di razza giapponese. E neppure questo è stato un “genocidio”.
Hitler ha trattato i civili ebrei come i rappresentanti di una minoranza belligerante nemica. Sfortunatamente è banale trattare questo genere di civili come persone potenzialmente o virtualmente pericolose. Secondo una comune logica di guerra, Hitler sarebbe stato portato ad internare tutti gli ebrei che gli capitavano a tiro. È ben lungi dall’averlo fatto, e non certo per ragioni umanitarie, ma per motivi di ordine pratico. In certe parti dell’Europa ha fatto portare ai suoi nemici un segno che li distinguesse: la stella ebraica (dal settembre 1941 in Germania e dal giugno 1942 nella zona nord della Francia). Coloro che portavano la stella non potevano circolare liberamente, e solo in certe ore; erano come prigionieri in libertà vigilata. Forse più che del problema ebraico Hitler si preoccupava di garantire la sicurezza del soldato tedesco, il quale era incapace di distinguere gli ebrei dai non ebrei. Questa stella glieli designava. Gli ebrei venivano sospettati di poter svolgere opere di informazione (molti di essi parlavano il tedesco), di praticare lo spionaggio, il traffico di armi, il terrorismo, il mercato nero. Bisognava evitare qualsiasi contatto tra l’ebreo e il soldato tedesco. Per esempio, nel metrò di Parigi gli ebrei che portavano la stella gialla potevano salire solo sull’ultimo vagone sul quale il soldato tedesco non doveva salire.[47] Non sono uno specialista di questi problemi e posso sbagliarmi, ma credo che questo tipo di misure fosse dettato tanto da ragioni di sicurezza militare che da una volontà di umiliazione. Dove vi erano forti concentrazioni di ebrei, che erano impossibili da sorvegliare veramente, se non a mezzo di una polizia ebrea, i Tedeschi temevano che accadesse ciò che d’altronde accadde nel ghetto di Varsavia, dove improvvisamente, e proprio dietro il fronte, un’insurrezione scoppiò nell’aprile del 1943. [Rettifica del 1997: Non c’è stata, in questo caso, insurrezione ma una reazione di gruppi di giovani di fronte ad un’operazione di polizia tedesca. Vedi R. Faurisson, Le ghetto de Varsovie en avril-mai 1943 : insurrection ou opération de police ?, datato del 28 aprile 1993, Nouvelle Vision, Caen, n° 30, settembre-novembre 1993, p. 8-13; riprodotto in Écrits révisionnistes (1974-1998), vol. IV, p. 1496-1500.] I Tedeschi scoprirono allora con stupore che gli ebrei avevano costruito 700 blockhaus.[48] L’insurrezione fu repressa e i superstiti trasferiti in campi di transito, di lavoro, di concentramento. In questi luoghi gli ebrei hanno vissuto una tragedia. Lo so che talvolta si pensa che ragazzi di 15 anni non potevano costituire un pericolo e che non li si sarebbe dovuti costringere a portare la stella. Ma se si resta nell’ambito di questa logica militare, per convincerci del contrario ci sono attualmente parecchi racconti e memorie di ebrei in cui si narra come i loro ragazzi svolgevano ogni specie di attività illecita o di resistenza contro i Tedeschi.
Bisognerebbe vedere meglio quanto ci sia di reale e quanto di mitologico nella descrizione che ci si fa degli ebrei lasciatisi sgozzare come montoni. I non ebrei hanno poi resistito così tanto? E gli ebrei hanno resistito così poco? Ciò che in parte falsa i dati del problema è che molti dei nostri giudizi si fondano su un presupposto: quello del “genocidio” degli ebrei. Va da sé che se questo “genocidio” ci fosse stato, si avrebbe voglia di trattare gli ebrei da vigliacchi. È il rimprovero che spesso, pare, i giovani ebrei muovono ai loro padri. Ma, se come affermano i revisionisti, il “genocidio” non è che una leggenda, allora l’accusa di vigliaccheria non ha più molta fondatezza.
Storia – Se da parte di Hitler non c’era una deliberata volontà di genocidio, perché allora Auschwitz, Treblinka, Belzec e gli altri campi di sterminio? Sono esistiti, sono una realtà. Vi sono entrati, e vi sono morti, non solo ebrei, ma anche “politici”, Zingari, Slavi, omosessuali, cioè tutti quei “diversi” che il razzismo nazista condannava. Perché allora aver organizzato quei campi, con quali finalità?
Faurisson – Un campo può essere definito di “sterminio” solo se vi si sterminano degli uomini. Questo è così vero che, secondo la terminologia creata dagli storici ufficiali, sono chiamati di “sterminio” solo quei campi che si pretende fossero dotati di una o più “camere a gas”. Questi campi non sono esistiti. La tremenda epidemia di tifo di Bergen-Belsen non ha trasformato questo campo (per la maggior parte senza reticolati) in un campo di sterminio. Quei morti non sono un crimine, ovvero sono solo un crimine dovuto alla guerra e alla follia degli uomini. Gli Alleati dividono una pesante responsabilità con i Tedeschi per lo spaventoso caos in cui l’Europa, le sue città, le sue strade, i suoi campi di rifugiati o di internati si trovarono alla fine della guerra. Gli Alleati hanno diffuso a profusione foto che mostrano i carnai di Bergen-Belsen. Ora, migliaia di detenuti sono morti di tifo dopo l’ingresso degli Inglesi a Bergen-Belsen. Gli Inglesi non riuscirono, non diversamente dai Tedeschi, ad arginare questa terribile epidemia. Sarebbe allora onesto trattarli come criminali?
I primi campi di concentramento nazisti sono stati concepiti per l’internamento e la rieducazione (sic!) degli oppositori politici di Hitler. La propaganda sostenne che questi campi, aperti a numerose visite, costituivano un progresso rispetto alle prigioni dove marcisce il prigioniero di diritto comune. Vi si potevano trovare anche degli ebrei, ma in quanto comunisti, socialdemocratici, ecc. Gli ebrei in quanto tali sono stati messi in campo di concentramento solo durante la guerra, soprattutto dal 1942. Coloro che erano stati internati nel 1938 per rappresaglia all’attentato di un ebreo contro von Rath erano stati per la maggior parte liberati dopo qualche mese. Prima della guerra, Hitler aveva tentato con un certo successo di provocare l’esodo degli ebrei. Egli augurava la creazione di un focolare nazionale ebraico fuori d’Europa. Il “progetto di Madagascar” era concepito come progetto di un focolare ebraico sotto responsabilità tedesca.[49] Prevedeva prioritariamente lavori di prosciugamento, sistema bancario ecc. La guerra ne ha impedito la realizzazione;[50] sarebbero state necessarie troppe navi. La piccola Germania – date un’occhiata alla carta del mondo – era impegnata, insieme al Giappone e a qualche altro alleato, in una formidabile lotta contro dei giganti. La sua preoccupazione principale era vincere la guerra. Accessorio era invece trovare una soluzione al problema ebreo, una soluzione che fosse una, definitiva, una “soluzione finale”, una “soluzione d’insieme” a un problema che, in un certo senso, era vecchio quanto lo stesso popolo ebraico.[51] Questa soluzione, a causa della guerra, sarebbe stata, grosso modo, “respingere verso Est” questi ebrei nei campi. Auschwitz era innanzitutto e soprattutto una molto importante concentrazione industriale dell’Alta Slesia composta da tre campi principali e da quaranta campi secondari ripartiti su tutta una regione. Le attività minerarie, industriali, agricole e di ricerca erano considerevoli: miniere di carbone (alcune delle quali a capitale francese), petrolchimica, armi, esplosivi, benzina e caucciù sintetici, allevamento, piscicoltura, ecc. Ad Auschwitz si trovavano sia internati sia lavoratori liberi, sia condannati a vita sia internati a termine. Nel campo di Auschwitz-II, o Birkenau, si aveva il pietoso spettacolo di numerose persone inabili al lavoro che marcivano sul posto. Tra questi, gli Zingari che, tranne qualche eccezione, sembra che i Tedeschi non abbiano messo al lavoro. Ad Auschwitz sono nati numerosi bambini zingari[52], e sembra che solo degli Zingari nomadi vi siano stati internati, non per ragioni razziali ma per nomadismo e per “delinquenza potenziale”. Ricordo che nella stessa Francia persino i resistenti non vedevano sempre di buon occhio gli Zingari, e li sospettavano di spionaggio, di essere informatori e di fare il mercato nero.[53] Sarebbe interessante stabilire quante carovane di Zingari hanno continuato a percorrere l’Europa in guerra. Quanto agli omosessuali, assimilati a dei delinquenti, come molti altri delinquenti erano tratti dalle prigioni o inviati direttamente ai campi per lavorarvi; la legislazione tedesca, come molte altre legislazioni dell’epoca, reprimeva l’omosessualità. Quanto agli Slavi, chi di loro era nei campi non vi si trovava in qualità di Slavo ma in quanto internato politico, prigioniero di guerra, ecc., allo stesso titolo dei Francesi. Ad Auschwitz c’erano persino dei prigionieri di guerra britannici catturati a Tobruk.
La preoccupazione principale dei Tedeschi, a partire dal 1942, era di mettere al lavoro tutti questi internati (tranne gli inabili, e, sembra, gli Zingari) per vincere la guerra. Ad Auschwitz esistevano persino dei corsi di formazione professionale per i giovani dai 12 ai 15 anni, per farne, ad esempio, dei muratori.[54] I responsabili tedeschi delle deportazioni di stranieri verso i campi insistevano per ottenere il maggior numero possibile di “abili al lavoro”. I governi stranieri, da parte loro, insistevano perché le famiglie non fossero smembrate e perché vecchi e bambini si aggregassero ai convogli. Né gli ebrei, né gli altri avevano coscienza di partire verso qualche sterminio, se devo credere alle testimonianze come quella di G. Wellers in L’ètoile jaune à l’heure de Vichy.[55] Avevano ragione. Fortunatamente questo massacro era solo una frottola di guerra. Peraltro si fa fatica a pensare che la Germania, che era drammaticamente a corto di locomotive, di vagoni, di carbone, di personale qualificato, e di soldati abbia potuto attuare un tale sistema di convogli per macelli. Questi convogli, lo voglio ricordare, sembrano aver avuto la priorità persino su quelli con materiali da guerra.[56] La manodopera soprattutto qualificata: ecco la principale preoccupazione dei Tedeschi.
Storia – Lei è specializzato nella critica testuale, ma ha fatto di questo problema il Suo “terreno” preferito di “ricerca storica”. Perché? Che cosa intende dire quando afferma che sul problema delle camere a gas e dello sterminio degli ebrei c’è una “cospirazione del silenzio”? Perché ci dovrebbe essere, e da parte di chi?
Faurisson – Per me la critica dei testi e dei documenti mira a stabilire il grado di autenticità e di veridicità di ciò che si legge. Si cerca così di distinguere il vero dal falso, il senso e il controsenso, ecc. Suppongo che questa preoccupazione doveva quasi fatalmente condurmi a rilevare alcuni falsi storici e, in particolare, a rilevare quello che tra qualche anno apparirà a qualsiasi storico come un falso monumentale.
La cospirazione del silenzio intorno alle opere dei revisionisti fa sì che esse siano, nella maggior parte, dei “samizdat“.[57] In quanto agli autori che riescono a infrangere il muro del silenzio, sono trattati da nazisti, e relegati quindi in un ghetto. I metodi usati contro gli storici o le persone non conformiste vanno dalla pura e semplice criminalità alle persecuzioni legali, passando attraverso metodi di bassa polizia. Lobbies di tutti i generi fanno regnare o tentano di far regnare un’atmosfera di terrore. Ne so qualche cosa. Io non posso più insegnare all’università. La mia vita è diventata difficile. Mi scontro con interessi giganteschi. Ma alcuni giovani mi sostengono. Prima o dopo luce sarà fatta. Anche degli ebrei sono al mio fianco; anche essi vogliono denunciare la menzogna e la persecuzione.
Più che alla cospirazione credo alla forza del conformismo. I vincitori dell’ultima guerra avevano bisogno di farci credere all’ignominia intrinseca del vinto. Sovietici e Occidentali, che erano divisi da tutto, su questo punto avevano trovato un buon terreno d’accordo. Hollywood e l’apparato propagandistico staliniano hanno unito i loro sforzi. Quale fracasso propagandistico! I principali beneficiari di questa operazione sono stati forse lo Stato di Israele e il sionismo internazionale. Le principali vittime sono stati il popolo tedesco – ma non i suoi dirigenti – e il popolo palestinese al completo. Ma in questi giorni gira zizzania nell’aria. Sionisti e Polacchi presentano versioni divergenti su Auschwitz.
Storia – Lei contesta molto dei metodi che gli storici “ufficiali” hanno applicato a questa ricerca storica. Questo capitolo di storia del XX° secolo non sarebbe stato scritto comme il faut. Perché, e perché avrebbero dovuto farlo?
Faurisson – Gli storici ufficiali hanno mancato ai loro impegni. In questo affare non hanno rispettato i metodi abituali della critica storica. Hanno seguito la corrente generale, quella imposta dai mass media. Si sono lasciati assorbire dal sistema. Uno storico ufficiale come il professore universitario Hellmut Diwald va incontro a terribili noie se si arrischia semplicemente a dire che il “genocidio”, nonostante l’abbondante letteratura che gli è consacrata, “non è stato ancora ben chiarito”. In seguito alla pressione delle organizzazioni ebree tedesche, la seconda edizione della sua Geschichte der Deutschen (Storia dei Tedeschi) è stata “ricomposta e migliorata” (sic!) là dove era necessario.
Il coraggio di Paul Rassinier sta proprio nell’aver applicato i metodi abituali della critica storica. Agli accusatori dei Tedeschi in un certo modo ha detto: “Mostratemi le vostre prove”, “Il vostro documento dà garanzie di autenticità?”, “Siete sicuri che questa espressione, questa frase hanno il senso che attribuite loro?”, “Da dove vengono le vostre cifre?”, “Come è stato possibile stabilire questa statistica?”, “Da dove viene la didascalia di questa foto? Chi mi dice che questa vecchia e questo bambino che vedo su questa foto sono ‘sulla strada della camera a gas’?”, “Questo ammasso di scarpe significa che si gasavano delle persone in questo campo oppure che molti detenuti di questo campo erano proprio impiegati a fabbricare scarpe?”, “Dove è il manoscritto di quella straordinaria testimonianza che dovrebbe avere una sola versione, e che invece vedo pubblicare nelle forme più contraddittorie, anche da parte di uno stesso storico?”, ecc.
Paul Rassinier, modesto professore di storia e di geografia, ha dato una notevole lezione di chiaroveggenza e di probità ai suoi eminenti colleghi d’università. Autentico rivoluzionario, autentico resistente, autentico deportato, questo uomo amava la verità come si deve: fortemente e al di sopra di tutto. Egli ha denunciato ciò che chiama “la menzogna di Ulisse”. Ulisse, è risaputo, nell’esilio ha conosciuto cento prove, ma, ritornato a casa, ne ha raccontato mille. Sappiamo che l’uomo ha molta difficoltà a non affabulare. È spesso ghiotto di straordinarie storie di caccia, di pesca, di amore, di denaro. Ma, soprattutto, abbonda nei racconti di atrocità.
L’Americano Arthur R. Butz ha scritto un libro magistrale su “l’lmpostura del secolo XX” (The Hoax of the 20th Century). Questo libro provoca sconcerto tra gli “sterminazionisti”. La dimostrazione è incontrovertibile. La sua traduzione è stata praticamente proibita in Germania con l’iscrizione del libro sull’elenco delle “opere pericolose per la gioventù”.[58]
Il Tedesco Wilhelm Stäglich ha pubblicato “Il Mito di Auschwitz” (Der Auschwitz Mythos). Il gruppo svedese di “Jewish Information” annuncia un Auschwitz Exit. Altri ebrei hanno scritto in senso revisionista: J. G. Burg, in Germania, per esempio. E non è molto che la rivista di estrema sinistra La Guerre Sociale ha pubblicato uno studio intitolato “De l’exploitation dans les camps à l’exploitation des camps” (“Dallo sfruttamento nei campi allo sfruttamento dei campi”).
In Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Germania (in questo paese la persecuzione dei revisionisti è spietata), in Australia, in Belgio, in Spagna, in Francia, un po’ ovunque nel mondo, delle voci si levano per chiedere che infine si rinunci a un’assurda propaganda di guerra.
Conosco anche, ma non posso fare i loro nomi in questa sede, degli storici ufficiali che stanno uscendo dall’incubo. Forse stanno per rinunciare alle delizie di quello che lo storico revisionista David Irving chiama “l’incesto tra storici”. Questa immaginifica espressione illustra la pratica che consiste nello sprimacciare voluttuosamente ciò che altri storici hanno affermato su un dato soggetto e nel rinnovarlo solo con dei sottili arzigogoli. Bisogna avere assistito a un congresso di storici sul nazismo. Che strana comunione nel rispetto del tabù! E come ci si sorveglia e ci si sente sorvegliati! Guai a chi turbasse la cerimonia espiatoria esponendo una tesi non ufficiale! Urla e censura.[59]
Storia – Lei è antisemita? Come giudica il nazismo?
Faurisson – Non sono antisemita. Bisogna evitare di vedere dappertutto antisemiti. Gli ebrei che denunciano l’impostura del “genocidio” sono come quei cattolici che dicono che c’è un’impostura di Fatima (dove migliaia di testimoni avrebbero visto danzare il sole). La verità, o la ricerca della verità, come può essere antisemita?
Il nazismo era, effettivamente, la dittatura di un Führer. È morto con il suo Führer il 30 aprile 1945. Il mio nemico è vinto. Non contate su di me per sputare sul suo cadavere. In quanto uomo non ammetto che si diffami il popolo tedesco attribuendogli dei crimini che sarebbero senza precedenti nella storia degli uomini. E non ammetto soprattutto che sia stato così bene “rieducato” da essere il primo a credere a questi crimini, e che si diffami da sé più di quanto non glielo chiedano i suoi stessi dirigenti. Da osservatore, constato che Adenauer, Brandt e Schmidt ripetono la lezione dei vincitori dell’Ovest mentre i loro omologhi della Germania dell’Est ripetono quella dei vincitori dell’Est. Suppongo sia la Realpolitik.
Storia – Lei nega anche che il numero delle vittime, i sei milioni, sia attendibile. Fossero anche di meno, cambierebbe qualcosa al fatto che genocidio c’è stato, e poco conta quante sono state le vittime?
Faurisson – Sei milioni di persone sono la popolazione di un paese come la Svizzera. Nessuno, al processo di Norimberga, aveva la minima possibilità di puntellare una cifra così stravagante. È il mattino del 14 dicembre 1945 che il procuratore americano Dodd tentò di accreditare questa cifra leggendo una dichiarazione del testimone Höttl.[60] Il pomeriggio dello stesso giorno era costretto a battere in ritirata per l’intervento dell’avvocato Kauffmann, ben deciso a chiedere l’escussione del testimone per chiedergli conto di questa cifra. Disgrazia vuole che la stampa e gli storici hanno ritenuto questa cifra come se il tribunale stesso vi avesse creduto. [Rettifica del 1997: Il tribunale ha né più né meno avvallato la cifra di sei milioni (vedi TMI, I, p. 266, 311); egli attribuisce questa cifra a Eichmann mentre si tratta di una stima attribuita da Wilhelm Höttl al suo camerata Eichmann.]
Queste sono le mie stime: 1° il numero di ebrei sterminati dai nazisti (o vittime del “genocidio”) è fortunatamente uguale a zero; 2° il numero di Europei uccisi per fatti di guerra (fatti di guerra spesso atroci) potrebbe essere nell’ordine dei 40 milioni; di questi, quello degli ebrei europei potrebbe essere dell’ordine di un milione ma, più probabilmente, di alcune centinaia di migliaia se non si contano gli ebrei combattenti sotto diverse bandiere alleate. Insisto sul fatto che da parte mia si tratta di una stima che non ha carattere propriamente scientifico. Per contro, ho abbastanza buone ragioni per pensare che la cifra dei morti di Auschwitz (ebrei e non ebrei) sia di 50.000 circa (cinquantamila) e non di 4 milioni, come a lungo si è preteso, prima di accontentarsi ora di un milione come fa l’istituto di storia contemporanea di Monaco. Quanto al numero dei morti di tutti i campi di concentramento dal 1933/34 al 1945, penso debba essere stato di 200.000 o, tutt’al più, di 360.000. Un giorno citerò le mie fonti, ma già da ora dico che se si impiegassero i computer si potrebbe probabilmente sapere presto il numero reale dei morti. I deportati venivano schedati ai diversi livelli. Hanno lasciato numerose tracce. [Rettifica del 1997: Al visto dei registri mortuari (Sterbebücher), incompleti, il total dei morti di Auschwitz e di circa quaranta sotto-campi potrebbe essere stato di centocinquanta mila. Quanto al totale dei morti di tutti i campi, esso è ancora impossibile da definire.]
Storia – Si rende conto che Lei potrebbe contribuire a una specie di “riabilitazione” del nazismo?
Faurisson – Significa riabilitare Nerone dire che non abbiamo alcuna prova che egli abbia fatto incendiare Roma? Ciò di cui bisogna preoccuparsi di riabilitare o di ristabilire è la verità, almeno quando lo possiamo fare. Lo storico non ha da preoccuparsi degli interessi di Tizio o di Caio. L’importante per me è di portare il mio contributo a una storia veridica della Seconda Guerra Mondiale. Se un anziano nazista venisse a dirmi che le pretese “camere a gas” e il preteso “genocidio” degli ebrei costituiscono una sola e unica menzogna storica, lo approverei come se mi dicesse che due e due fanno quattro. Ciò non andrebbe oltre e io lo lascerei alle sue idee politiche.
Il neonazismo è in gran parte un’invenzione dei mass media che ci vendono persino un nazismo da sex-shop. È come la pretesa “colonna Odessa” o le colonie naziste in America del Sud. O le croniche riapparizioni di Hitler o di Bormann. Se ne fanno di soldi con queste invenzioni. Credo che in Germania coloro che dai loro avversari politici vengono definiti “neonazisti” compongono lo 0,7% del corpo elettorale. Viviamo nella fantasmagoria, in una specie di nazismo senza nazisti. A questo proposito vi rimando alle pertinenti analisi di Gilbert Comte apparse su Le Monde del 29 e 30 maggio 1979. Poiché nulla è gratuito in questo mondo, va da sé che lo smontare questo delirio mette in evidenza un gioco molto complesso di interessi, di passioni, di conflitti a livello planetario. Lo Stato di Israele ha un interesse vitale a mantenere questa fantasmagoria che ha non poco reso possibile la sua creazione nel 1948. Anche uno Stato come quello francese ha interesse a mascherare la realtà di numerosi conflitti mantenendo mobilitati gli animi contro il peggior nemico che ci sia: la famosa immonda bestia nazista, una bestia morta 35 anni fa e sul cui conto e concesso sbizzarrirsi. Ecco quindi queste perpetue cerimonie espiatrici, queste condanne alle fiamme eterne, questa necessità di vendetta, di castigo, di denuncia senza limite di tempo, di luogo o di persona.
Storia – Non crede che trattare in questo modo il problema del genocidio sia screditarne il ricordo su cui si basa principalmente la convinzione diffusa che l’antisemitismo sia il peggiore di tutti i razzismi praticati nel XX° secolo? Infatti un ricordo screditato non serve a nulla.
Faurisson – L’antisemitismo non e il peggiore dei razzismi ma un buon sistema per farcelo credere è appunto di farci credere al “genocidio” degli ebrei. I sionisti sono andati troppo oltre. Coloro che avevano voluto rifiutare il principio delle “riparazioni finanziarie” versate dalla Germania, in particolare in nome del “genocidio”, avrebbero dovuto essere ascoltati. Sfortunatamente, Ben Gurion per lo Stato di Israele e Nahum Goldmann sia per lo Stato di Israele che per la Diaspora hanno voluto trarre un gigantesco profitto finanziario da questo affare. Adenauer vi si è prestato. Tutto ciò dà all’impostura del “genocidio” un aspetto ancora più sgradevole. Leggete la stupefacente intervista di Nahum Goldmann apparsa sul numero 624 del Nouvel Observateur (23-29 ottobre 1976): raramente si è visto un uomo tanto piacevolmente stupito e felice di avere concluso una così splendida operazione finanziaria.[61]
Storia – Nel corso della Sua polemica con quanti Le contestano questa tesi, Lei ha anche affermato che buona parte di quanto il pubblico conosce è leggenda, e che essa sarebbe stata resa possibile da un uso “indiscriminato” dei mass media. Che intende dire esattamente con ciò? [Rettifica del 1997: Il giornalista italiano mi presta qui una parola, “indiscriminato”, che non è del mio vocabolario – RF]
Faurisson – Questo è un punto grave e appassionante. La responsabilità dei mass media in tutto questo affare è schiacciante. Per 35 anni, sui cinque continenti, la leggenda del “genocidio” e delle “camere a gas” ci è stata presentata come una verità. Miliardi di uomini sono stati così tratti in inganno. È una cosa che dà le vertigini a pensarla. Quale lezione per quanti credono in un’informazione diversa e contraddittoria! C’è voluta la lotta eroica di qualche individuo, di qualche spirito non conformista perché uno spiraglio si aprisse nello schermo della verità ufficiale. Potrei scrivere un lungo studio sul modo in cui i giornali e la televisione francesi soffocano l’informazione, aiutati dai tribunali e dai poteri pubblici nel loro insieme. I giornalisti temono che in un prossimo futuro venga istituita una banca dei dati dell’informazione. Questa informazione risulterebbe da una selezione [delle notizie – ndr] che essi non avrebbero la possibilità di controllare. Ho un consiglio da dare loro. Se vogliono sapere come corrono il rischio di essere ingannati, si chinino sul passato e, per qualcuno di essi, sul loro proprio passato. Per sapere come si rischia un giorno di mentire, vadano a vedere con quale gelosa cura è stata conservata la più bella menzogna di tutti i tempi. Quando Luigi XIV mentiva le sue menzogne non superavano qualche provincia. Ai giorni nostri la menzogna può prendere dimensioni veramente hollywoodiane. Un “docu-dramma” come Holocaust è il coronamento di un’intera struttura. Non era concepibile negli anni del dopoguerra, che pure erano ben impregnati di odio. Ci volevano trenta e più anni di intossicazione. Una droga così forte come Holocaust poteva essere somministrata solo ad animi già lungamente impregnati di altre droghe dello stesso genere e che spontaneamente ne reclamano di ancora più virulente.
Ma l’overdose ha prodotto effetti salutari grazie alla visione stessa che abbiamo della nostra decadenza. Si sono potute rilevare delle sane reazioni. Penso in particolare a una reazione veramente notevole dell'”ebreo libero” Michel Rachline, apparsa nel Figaro-Magazine del 3 marzo 1979.
La non esistenza delle “camere a gas” e del “genocidio” è una buona notizia. L’uomo, pur capace dei massimi orrori, non è stato capace di questo. C’è di meglio: milioni di uomini che ci sono stati presentati come complici di un crimine mostruoso o come vigliacchi o come bugiardi erano onesti. Ho già detto che gli ebrei accusati dai loro figli di essersi comportati come pecore che i Tedeschi avrebbero condotto al macello non meritavano questa accusa. Aggiungo che gli accusati di Norimberga e di mille altri processi dicevano la verità quando affermavano ai loro giudici-accusatori di non sapere nulla di questi orribili massacri. Il Vaticano e la Croce Rossa dicevano il vero quando confessavano pietosamente la stessa ignoranza. Gli Americani, gli Inglesi, gli Svizzeri, gli Svedesi e tutti quei popoli o governi ai quali oggi degli ebrei estremisti rimproverano di essere stati passivi mentre, pare, funzionavano i macelli nazisti, non devono più comportarsi da colpevoli pentiti. Il risultato più vergognoso di questa gigantesca impostura era e resterà ancora per un certo tempo questa cattiva coscienza che gli ebrei estremisti hanno creato in tanti popoli, e in particolare nel popolo tedesco. Soprattutto non vorrei dare l’impressione di cercare, poco o tanto, di fare l’apologia del nazismo. Credo persino di poter presentare un’analisi severa di questo genere di ideologia. Ma non proporrò questa analisi fintanto che il falso nazismo col quale ci seccano gli “sterminazionisti” non sarà stato denunciato dall’insieme degli storici ufficiali. Queste persone, attaccando un nazismo che non è mai esistito, danno l’impressione di essere incapaci di aggredire la realtà di ciò che il nazismo è stato. Mi fanno pensare a coloro che rappresentano il Male nella forma di un diavolo con graticola, tridente e fiamme. Il Male in realtà, e noi lo sappiamo bene, è nei sistemi di vita che l’uomo si è creato. Finché ce la prenderemo con le forme mitiche del Male, il Male se la caverà bene. La nostra società è scombussolata. In pieno XX° secolo ha reinventato il diavolo. Essa combatte un nemico immaginario. Ha di meglio da fare. Uno sforzo di analisi si impone. Apriamo gli occhi su ciò che i mass media hanno fatto di noi. Smascheriamo ciò che il potere cerca di nascondere. In ogni campo.
1 agosto 1979
[Intervista apparsa in italiano su Storia Illustrata, n° 261, agosto 1979, p. 36-65. Le note sono state aggiunte alla versione francese pubblicata in Serge Thion, Vérité historique ou vérité politique? (La Vieille Taupe, Parigi 1980, p. 171-212). È da notare che la discussione è proseguita nelle colonne di Storia Illustrata fino al dicembre del 1979.]
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Note
[1] Questa leggenda assurda (si chieda al riguardo ad un anatomista, a un chimico, a uno specialista qualsiasi) è stato ripresa, ma con poco successo, a proposito della Seconda Guerra Mondiale. Se si può credere a Gitta Sereny, i responsabili tedeschi dell’inchiesta sui “crimini nazisti” (Zentrale Stelle der Landesjustizverwaltungen zur Aufklärung NS-Verbrechen) hanno “infirmato” l’informazione secondo cui i nazisti erano stati in grado di utilizzare i corpi degli ebrei per farne sapone e fertilizzanti. (Questi responsabili lavorano a Ludwigsburg sotto la direzione del Procuratore generale Adalbert Rückerl, sterminazionista convinto.) Gitta Sereny riferisce questo fatto in Into That Darkness (André Deutsch, Londra 1974) nella nota 2 a pagina 150 della traduzione francese: Au fond des ténèbres, Denoël, Parigi 1975. Tuttavia, se si deve credere a Pierre Joffroy, delle “saponette di ebrei” si trovano oggi sepolte nel cimitero ebraico di Haifa (Israele). Infatti, Pierre Joffroy, in un articolo su Anne Frank nel 1956, evocava queste “quattro barre di ‘sapone ebraico’ fabbricate con i cadaveri nei campi di sterminio e che, trovate in Germania, sono state coperte con un sudario, nel 1948, e piamente sepolte secondo i riti in un qualche luogo del cimitero di Haifa (Israele)”. Questo articolo è apparso sulla rivista Paris-Match n° 395 del 3 novembre 1956, p. 93.
[2] Vedi questa foto dalla US Army, che ha fatto il giro del mondo e che Arthur R. Butz ha riprodotto a pagina 191 di The Hoax of the Twentieth Century, Noontide Press, Torrance (California) 3ª edizione, 1979.
[3] “[…] für die Degesch vom 20. Juni 1922 ab vom Reichspatentamt patentiert” (Justiz und NS-Verbrechen, Amsterdam, Amsterdam University Press, Tome XIII [1975], p. 137).
[4] “Un gaz contre les renards” (Un gas contro le volpi), Le Quotidien de Paris, 2 settembre 1977. Si veda anche la rivista di caccia francese Le Saint-Hubert, aprile 1979, p. 180-181, “Méthodes de réduction de la population volpine”.
[5] Io non sono attualmente in grado di dimostrare quello che avevo lì asserito. Ho scoperto questa notizia negli archivi del centro di documentazione ebraica contemporanea di Parigi il cui ingresso mi è precluso dal gennaio 1978, a causa delle mie opinioni in campo storico.
[6] Questa espressione sembra sia stata creata dal gruppo di ricercatori svedesi riunito a Täby (Svezia) intorno a Ditlieb Felderer e che prepara un libro sulla “menzogna di Auschwitz” che sarà intitolato Auschwitz Exit.
[7] Tra questi titoli fuorvianti si può citare, di Pierre-Serge Choumoff, Les Chambres à gaz de Mauthausen, Parigi, Amicale des déportés et familles des disparus du camp de concentration de Mauthausen, 1972, 96 pagine.
[8] Georges Wellers, “La ‘solution finale de la question juive’ et la mythomanie néonazie”, Le Monde Juif, n° 86, aprile-giugno 1977, p. 41-84. Questo articolo, intitolato, in inglese, “Reply to the Neo-Nazi Falsification of Historical Facts concerning the Holocaust”, è contenuto (p. 105-162) nel libro pubblicato nel 1978 da The Beate Klarsfeld Foundation a New York con il titolo The Holocaust and the Neo-Nazi Mythomania, XVIII-216 pagine.
[9] Il campo di Auschwitz ha avuto tre successivi comandanti: Rudolf Höss, Arthur Liebehenschel e Richard Baer. Il primo è stato interrogato dagli Inglesi, poi dai Polacchi, che l’hanno giustiziato; il secondo è stato giustiziato dai Polacchi; il terzo è morto improvvisamente in prigione mentre si stava preparando il famoso “Processo di Auschwitz” a Francoforte (1963-1965). Da soli, i Polacchi sembrano aver interrogato e giudicato 617 persone (nazisti o alleati dei nazisti), collegati alla questione di Auschwitz; questa cifra è data da Hermann Langbein a pagina 993 di Der Auschwitz-Prozess, Europa Verlag, Vienna 1965, 2 vol. Da parte loro Francesi, Inglesi e Americani sovente hanno avuto l’occasione di interrogare o giudicare degli ex guardiani di Auschwitz. È sorprendente che dall’enorme massa di questi interrogatori e processi sia uscita una quantità così ridicola di informazioni sulle presunte uccisioni nelle “camere a gas”. Che io sappia non è stata fatta alcuna menzione di “confessioni” o anche di qualsiasi informazione da parte di Liebehenschel o di Baer sulle “camere a gas”. Il vero “processo delle camere a gas” di Auschwitz è stato – non lo si dirà mai abbastanza – quello degli architetti Walter Dejaco e Fritz Ertl a Vienna nel 1972.
Questo processo innescato da Simon Wiesenthal e presentato come un fatto sensazionale doveva subito apparire come un fiasco per l’accusa. I due uomini ai quali veniva rimproverato di aver “costruito e riparato le camere a gas e i giganteschi crematori ad Auschwitz-Birkenau” seppero con tutta evidenza dimostrare, in quanto tecnici, che se avevano effettivamente costruito o fatto costruire i forni crematori, certamente era proprio escluso che avessero disegnato le planimetrie per delle “camere a gas”; disegnarono solo quelli delle camere mortuarie che fiancheggiavano i forni crematori. Entrambi gli architetti furono assolti.
[10] Kommandant in Auschwitz/Autobiographische Aufzeichnungen von Rudolf Höss, Eingeleitet und Kommentiert von Martin Broszat, Deutsche Verlags-Anstalt, Stoccarda 1958. A pagina 166 di questo libro, nel frammento di confessione che Höss avrebbe compilato nel novembre 1946, si trova il seguente passaggio: “Eine halbe Stunde nach den Einwurf des Gases wurde die Tür geöffnet und die Entlüftungsanlage eingeschaltet. Es wurde sofort mit dem Herausziehen der Leichen begonnen.” E a pagina 126 del libro, nel frammento datato del febbraio 1947, si dice che la squadra incaricata di estrarre i cadaveri dalle “camere a gas” faceva questo lavoro con una “ottusa indifferenza” “mit einer stumpfen Gleichmütigkeit” “come se si trattasse di un qualsiasi incarico quotidiano” (“als wenn es irgend etwas Alltäglisches wäre”). Höss aggiunge: “Beim Leichenschleppen assen Sie oder rauchten.” In altre parole: “Durante il trascinamento dei cadaveri, mangiavano o fumavano.” Per Höss, del resto, non smettevano di mangiare. Mangiavano quando estraevano i cadaveri dalle camere, quando rimuovevano i denti d’oro, quando tagliavano i capelli, quando trascinavano il loro carico verso le fosse o verso i forni. Höss aggiunge anche questa enormità: “Nelle fosse mantenevano il fuoco, innaffiavano [i corpi] con il grasso che si accumulava, scavavano nelle montagne di cadaveri in fiamme per facilitare l’arrivo dell’aria”. Non ci dice come faceva il grasso a bruciare (non si arrostiscono i corpi allo spiedo come se si trattasse di polli, ma si carbonizzano in mucchi accumulati al suolo o su falò). Non ci dice come gli uomini potevano avvicinarsi a questi grandi falò per raccoglierne i fiotti di grasso (!), né come potevano scavare in quelle montagne di cadaveri per facilitare il passaggio dell’aria. L’assurdità di questa “annaffiatura con grasso accumulato” (“das Übergiessen des angesammelten Fettes”) è, inoltre, tale che il traduttore francese del libro presentato da Martin Broszat ha molto discretamente omesso di tradurre queste cinque parole dal tedesco (Rudolf Höss, Le Commandant d’Auschwitz parle…, tradotto dal tedesco da Costantin de Grunwald, Julliard, Parigi 1959, ristampa del 15 marzo 1970, p. 212).
[11] Per i processi diversi detti “di Norimberga”, gli Americani hanno sfogliato numerosi documenti tecnici relativi allo Zyklon B. Se avessero letto questi documenti attentamente e se avessero continuato le loro ricerche, come ho fatto io, in alcuni libri tecnici che erano in possesso della Library of Congress di Washington, si sarebbero accorti dell’incredibile somma di impossibilità tecniche contenuta in tutte le testimonianze secondo le quali i Tedeschi avevano usato lo Zyklon B per uccidere degli esseri umani nelle “camere a gas”. In altro luogo dedicherò uno studio ai quattro documenti che, per me, annientano la leggenda delle “camere a gas”. Questi quattro documenti sono, in primis, due documenti depositati dagli Americani per i processi di Norimberga, e due studi tecnici firmati da Gerhard Peters che si possono consultare nella biblioteca di Washington. Ricordo che Gerhard Peters è stato, durante la guerra, il direttore ad interim della DEGESCH (Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung, Società tedesca per la lotta contro gli animali nocivi) che controllava, in modo massiccio, la distribuzione dello Zyklon B. Dopo la guerra Gerhard Peters sarebbe stato più volte processato dai suoi concittadini: non aveva, diceva lui, mai sentito durante la guerra di un uso omicida dello Zyklon B.
– Documenti da Norimberga (documenti NI, vale a dire: “Nuremberg, Industrialists”):
a) NI-9098, depositato solo il 25 luglio 1947: libretto intitolato Acht Vorträge aus dem der Arbeitgebiet Degesch (Otto conferenze sugli aspetti dell’ambito delle attività della Degesch) e stampato nel 1942 per uso privato. Alla fine di questo libretto, p. 47, vi è una tabella che descrive ciascuno degli otto gas prodotti dalla ditta. Al punto 7 della descrizione riguardo allo Zyklon B si legge: “Luftbarkeil: wegen starken Haftvermögens des Gases an Oberflächen, erschwert u. langwierig” (Caratteristiche di ventilazione: lunga e complicata per ventilare in quanto il gas aderisce fortemente ai superfici);
b) NI-9912, depositato solo il 21 agosto 1947: cartellone dal titolo Richtlinien für die Anwendung von Blausäure (Zyklon) zur Ungeziefervertilgung (Entwesung) (Linee guida per l’uso dell’acido prussico [Zyklon] per la distruzione di animali nocivi [Disinfestazione] – Linee guida per l’uso dell’acido prussico [Zyklon] per la distruzione dei nocivi [disinfestazione]). Questo documento è di fondamentale importanza; meglio di ogni altro, dimostra come il maneggio dello Zyklon B non possa essere affidato che a una persona addestrata. Il tempo richiesto perché il prodotto distrugga i parassiti va da 6 ore con clima caldo fino a 32 ore con clima freddo; la durata normale è di 16 ore. Questa lunga durata è spiegata probabilmente dalla composizione dello Zyklon. Lo Zyklon è composto da acido prussico o cianidrico assorbito da un supporto di diatomite. Il gas viene rilasciato lentamente a causa della natura del supporto. Questa lentezza è tale che non si comprende come i Tedeschi avrebbero potuto scegliere lo Zyklon per liquidare delle masse. Sarebbe stato molto più facile per loro utilizzare l’acido cianidrico nella sua forma liquida. Disponevano di grandi quantità di questo acido nei laboratori della I.G.-Farben di Auschwitz, dove lavoravano, prevalentemente, alla preparazione della gomma sintetica. È dal documento NI-9912, riprodotto in traduzione francese nel vol. I d’Ecrits révisionnistes (1974-1998), p. 18-27, che ricavo le informazioni riguardanti l’uso dello Zyklon B per la gasazione d’una baracca, la durata della ventilazione (almeno 21 ore), ecc.
– Documenti della Library of Congress: si tratta di due studi tecnici redatti da Gerhard Peters e pubblicati entrambe in Sammlung chemischer und chemisch-technischer Vorträge, uno nel 1933, in Neue Folge Heft 20 e l’altro in Neue Folge Heft 47a nel 1942 (rivista pubblicata da Ferdinand Enke a Stoccarda). Ecco i titoli, seguiti dalla catalogazione della Library of Congress:
a) “Blausäure zur Schädlingsbekämpfung” (QDI, S2 n.f., hft 20, 1933, 75 p.)
b) “Die hochwirksamen Gase und in der Dämpfe Schädlingsbekämpfung” (QDI, S2 n.f., hft 47a, 1942, 143 p.).
A proposito, è degno di nota il fatto che questa rivista pubblicata in piena guerra in Germania sia egualmente pervenuta, in piena guerra, alla Library of Congress: il numero del 1942 è stata registrato… il 1° aprile 1944!
[12] La normativa francese sull’uso dell’acido cianidrico è drastica quanto la tedesca; vedi il decreto 50-1290 del 18 ottobre 1950 del ministero della salute pubblica, Parigi.
[13] La planimetria che ci permette di dare queste dimensioni, precise al centimetro, si trova negli archivi del Museo di Stato di Oswiecim (Auschwitz). La catalogazione della foto di questo piano è: Neg. 519. Le planimetrie dei Krema IV e V sono ancor più interessanti di quelli dei Krema II e III. Essi provano, in effetti, che i tre vani impropriamente chiamati “camere a gas” erano innocui locali, dotati di porte e finestre normali. Non vi è né cantina né soffitta. L’unico modo per le SS per “lanciare lo Zyklon” in queste stanze “dall’esterno” sarebbe stato il seguente: le SS avrebbero dovuto pregare le loro future vittime, stipate a centinaia o a migliaia in 236,78 metri quadrati, di voler cortesemente aprire le finestre in modo che “potessero gettare lo Zyklon” – dopo di che le vittime avrebbero accuratamente chiuso le finestre, si sarebbero astenute dal rompere i vetri finché la morte non fosse sopraggiunta. Si capisce perché i comunisti polacchi siano così discreti su queste planimetrie e preferiscano evocare le “confessioni” di Höss, senza fornire molte illustrazioni topografiche.
[14] Questi resti interessanti dei Krema sono visibili dietro un grande vetro della stanza sul retro che, nel blocco d’esposizione n° 4, è dedicata ai Krema.
[15] Questi dettagli sulla prima esecuzione con gas tossici sono stati dati dal quotidiano belga Le Soir il 9 febbraio 1974; sotto la rubrica “Il y a 50 ans” (50 anni fa), questo giornale riproduceva un articolo di Le Soir del 9 febbraio 1924.
[16] La sintesi che dò qui di una esecuzione con cianuro di idrogeno si basa su un sondaggio che un avvocato americano ha cortesemente effettuato per mio conto presso sei penitenziari e presso una ditta produttrice di camere a gas. I sei penitenziari sono i seguenti: San Quentin (California), Jefferson City (Missouri), Santa Fe (New Mexico), Raleigh (North Carolina), Baltimore (Maryland), Florence (Arizona). L’azienda è la Eaton Metal Products Co., di Denver (Colorado). Ovviamente, da un penitenziario all’altro, vi sono delle varianti nel metodo di esecuzione. Personalmente ho ottenuto il permesso di visitare una di queste camere a gas. Il foglio di procedura (“Gas Chamber Procedure Check Sheet”) rivela che la semplice preparazione della sala per l’esecuzione richiede due giorni di lavoro per due dipendenti, lavorando entrambi otto ore ogni giorno. Una volta pronta la camera, la stessa esecuzione avviene in 47 tappe. Questo foglio non è affatto sufficiente per avere un’idea della complessità dei compiti in quanto è un semplice elenco di manovre. Prendiamo un esempio: l’ultima indicazione di manovra è redatta così: “Empty Room / Body removed” (svuotare camera / corpo rimosso). Ora, queste parole significano questo: il medico ed i suoi collaboratori devono, dopo aver atteso il tempo regolamentare, entrare nella camera portando maschere antigas, grembiuli di gomma e guanti di gomma; il medico deve passare la mano fra i capelli del morto per scacciare le molecole di cianuro di idrogeno che fossero rimaste; i due assistenti devono, con un getto d’acqua, lavare con cura il corpo; in particolare devono lavare l’interno della bocca e ogni orifizio; essi non devono dimenticare di lavare accuratamente le pieghe delle braccia e le pieghe delle gambe. La semplice vista di una di queste piccole camere a gas fatte per uccidere un solo condannato rende ridicoli quei locali di pietra, legno e gesso presentatici come le vecchie camere a gas tedesche. Se la camera a gas americana è realizzata esclusivamente in vetro e acciaio, lo è per una ragione di buon senso e per una ragione più specificamente tecnica. La prima è che avendo l’acido la tendenza ad aderire alle superfici ed anche a penetrarle, si deve evitare ogni materiale che si presti a questa aderenza e a questa penetrazione. La seconda ragione è che, quando i ventilatori svuotano la camera dell’aria ivi contenuta, vi è il rischio di una implosione; da qui il notevole spessore dell’acciaio e dei vetri dell’abitacolo. Va da sé che la porta d’acciaio, molto pesante, non si può chiudere che con un volano.
[17] I comunisti polacchi stessi ammettono che il tatuaggio aveva lo scopo di rendere le fughe più difficili (e di facilitare l’identificazione di un latitante catturato); si veda Contribution à l’Histoire du KL-Auschwitz, edizioni del Museo di Stato d’Oswiecim, 1968, p. 16 e 99.
[18] Louis De Jong in Viertelsjahrshefte für Zeitgeschichte, Monaco di Baviera, 1969, Heft 1, p. 1-16: “Die Niederlande und Auschwitz”. Sensibile al carattere delicato di questo genere di rivelazioni, il direttore della rivista, H. Rothfels, spiega nella prefazione (Vorbemerkung) il motivo che lo ha indotto a pubblicare questo studio. La ragione sta nel fatto che non essendo Louis De Jong tedesco, egli sarebbe stato tanto meno sospettabile di fare l’apologia del nazionalsocialismo visto che, al contrario, in quanto direttore di un istituto ufficiale come quello di Amsterdam aveva fornito ampie prove della sua serietà. Questa premessa dà un’idea della situazione in cui versano gli storici tedeschi: vi sono delle verità che essi non possono dire senza essere sospettati di fare l’apologia del nazismo. Bisogna inoltre sapere che il signor Louis De Jong è ancor meno sospettabile essendo di origine ebraica.
[19] Le fotografie aeree sono state rivelate al pubblico da Dino A. Brugioni e Robert G. Poirier in un fascicolo intitolato The Holocaust Revisited (Central Intelligence Agency, Department of Commerce, National Technical Information Service, Washington; ST 79-10001, 19 pagine). Entrambi gli autori offrono un interessante esempio di cecità. Cercano a tutti i costi di adattare ciò che mostra loro la realtà materiale di queste immagini a ciò che pensano di sapere della realtà di Auschwitz appresa da tre libri sterminazionisti. Vi è una contraddizione spettacolare tra le foto e le didascalie da loro compilate.
[20] L’articolo 19 dello Statuto del Tribunale Militare Internazionale recita: “Il Tribunale non sarà vincolato dalle regole tecniche relative alla gestione delle prove […]” (“The Tribunal shall not be bound by technical rules of evidence […]” / “Der Gerichtshof ist an Beweisregeln nicht gebunden […].”)
L’articolo 21 recita: “Il Tribunale non esigerà che sia portata la prova di fatti di pubblica notorietà, ma ne prenderà giudiziariamente atto […]” (“The Tribunal shall not require proof of facts of common knowledge but shall take judicial notice thereof” / “Der Gerichthof soll nicht Beweis für allgemein bekannte Tatsachen fördern, sondern soll sie von zur Amts wegen Kenntnis nehmen […].”)
[21] Vescovo Piguet, Prison et déportation, Editions Spes, Parigi 1947, p. 77.
[22] La presunta “camera a gas” di Dachau oggi porta la seguente iscrizione redatta in cinque lingue (tedesco, inglese, francese, italiano, russo):
Ho chiesto a Frau Barbara Distel, direttore del Museo di Dachau, e al dott. Guerisse, presidente del Comitato Internazionale di Dachau, con sede a Bruxelles, che cosa permetteva loro di definire “camera a gas” un locale “non terminato”; si chiede difatti come si può sapere che un locale non finito sia destinato a diventare, una volta completato, una cosa che non ha mai vista in vita sua. Ho voluto anche sapere se si fosse provveduto a fare una perizia tecnica, scientifica o giudiziaria di questo luogo. Su questo secondo punto la risposta è stata negativa. Sul primo punto non ho ricevuto risposta. Ogni visitatore di Dachau non avrebbe il diritto di chiedere chiarimenti sul posto? Ogni Tedesco non avrebbe diritto di chiedere agli accusatori una prova a sostegno della loro terribile accusa? Poiché è un’accusa terribile dire che questa o quella persona ha forgiato un’arma abominevole con l’intento di uccidere esseri umani in una sorta di mattatoio.
[23] Cfr. “Réflexions sur l’étude de la déportation”, di Germaine Tillion, nel numero speciale dal titolo “Le système concentrationnaire allemand (1940-1944)” della Revue d’histoire de la Deuxième Guerre mondiale del luglio 1954. Vedere le pagine 16, 17, 20, 21, 24, 26 e, soprattutto, la nota 2 a pagina 17, la nota 2 a pagina 18 e la nota 1 a pagina 20.
[24] Documento da Norimberga “Paris. Storey” PS-3870: dichiarazioni giurate del poliziotto Hans Marsalek. Le condizioni in cui Ziereis avrebbe, secondo questo poliziotto, ammesso l’esistenza ed il funzionamento di una “camera a gas” a Mauthausen valgono la pena di essere meditate. Fanno dell’interrogatorio una vera e propria sessione di tortura che è durata da sei a otto ore, finché Ziereis non rese l’anima. Lo stesso poliziotto afferma di aver condotto l’interrogatorio del comandante da sei a otto ore nella notte dal 22 al 23 maggio 1945. Dice che Franz Ziereis era rimasto gravemente ferito, che tre proiettili lo avevano trapassato da parte a parte e che sapeva che stava morendo. Si può vedere oggi al Museo di Mauthausen una foto fatta con il flash e che mostra Ziereis ancora vivo, mentre un internato seduto accanto a lui lo ascolta; ci sono altre persone nella stanza al capezzale del morente; forse erano lì il generale Seibel, comandante della 11ª divisione corazzata degli Stati Uniti, e l’ex medico degli internati, il deportato dott. Koszeinski, come dichiara il poliziotto. Che un generale di divisione ed un medico abbiano accettato di partecipare a questa sessione di tortura la dice lunga sulla mentalità di coloro che hanno un “nazista” per le mani: un “nazista” non è un uomo, ma una sorta di bestia malvagia. È proprio in questo modo, si può esserne certi, che sono stati considerati tutti i comandanti dei campi. Non destano sorpresa pertanto le “confessioni” rese o che si dice abbiano rese.
[25] “Keine Vergasung in Dachau” dal dott. Martin Broszat, Die Zeit, 19 agosto 1960; si veda la traduzione francese a pagina 8 di Écrits révisionnistes (1974-1998), vol. I.
[26] Si veda il libro che cito sopra, nella mia nota 10 (R. Höss, Kommandant in Auschwitz…). Il dott. Martin Broszat spiega nella nota 1 a pagina 167 perché non fornisce il seguito del testo di Höss. Ha affermato che in questo seguito Hoss ci consegna dei “dati assolutamente disorientanti” (“völlig abwegige Angaben”) che egli chiama informazioni “che non si possono assolutamente prendere sul serio” (“müssen diese Mitteilungen als gänzlich unzuverlässig gelten”). Il dott. Broszat dà un esempio di queste aberrazioni, ma è attento a scegliere la meno aberrante di queste aberrazioni. Quindici anni dopo la pubblicazione del suo libro è accaduto che i Polacchi abbiano, a loro volta, dato quello che si è convenuto chiamare il testo della confessione di Höss. Ed è qui che, finalmente, si vede che le “aberrazioni” si erano moltiplicate sotto la penna di Höss. Per averne un’idea, il lettore può fare riferimento al libro KL-Auschwitz in den Augen der SS, Verlag des Staatlichen Auschwitz-Museums, Cracovia 1973, p. 135-136. Il dott. Broszat si è squalificato agli occhi di qualsiasi storico serio con la pubblicazione da lui fatta della “confessione di Höss” e, con un minimo di attenzione e di onestà, avrebbe dovuto concludere che questa confessione, lì dove è auto-incriminante, non è nient’altro che una massa di assurdità e di aberrazioni che solo i carcerieri polacco-stalinisti potevano aver dettato a Höss.
[27] L’espressione usata dal dott. Broszat è “vor allem”; questa espressione imbarazzata sembra essere stata dettata dal desiderio di non pronunciarsi sull’autenticità di “camere a gas” che non sono situate né in Polonia, né nel Vecchio Reich; è il caso per Mauthausen, situato in Austria, e per Struthof, situato in Alsazia.
[28] A seguito di un fenomeno frequente in questo campo, il dott. Broszat ha potuto dare l’impressione di aver più o meno ritrattato le sue coraggiose dichiarazioni del 19 agosto 1960. Ha scritto o fatto scrivere dai membri del suo istituto di Monaco di Baviera lettere o articoli, dove ci si chiede se abbia mutato opinione sul contenuto della sua lettera a Die Zeit. In realtà, guardando con attenzione il testo, si ha soprattutto l’impressione che il dott. Broszat faccia concessioni puramente formali. Per valutarle, si farà riferimento ai testi seguenti:
a) Risposta di Frau dott. S. Noller, il 26 ottobre 1967, al giornalista di Paris-Match Pierre Joffroy. Questa risposta è parzialmente pubblicata nel libro di Pierre-Serge Choumoff, Les Chambres a gaz de Mauthausen (p. 73-74), che ho citato nella mia nota 7.
b) La prefazione del dott. Broszat a uno studio di Frau dott. Ino Arndt e del dott. Wolfgang Scheffler, apparso sul Viertelsjahrshefte für Zeitgeschichte dell’aprile 1976, intitolata “Organisierter Massenmord an Juden in NS-Vernichtungslagern” (p. 105-135; prefazione: p 105-112).
c) Risposta di Frau dott. Ino Arndt, il 25 novembre 1977, al professor Egon G. L. Rieder. Questa risposta è stata pubblicata da MUT-Verlag, Asendorfen, Germania, gennaio 1979.
[29] Su Treblinka, così come su Belzec, Sobibor e Chelmno, vedere Adalbert Rückerl, NS-Vernichtungslager im Spiegel deutscher Strafprozesse, Deutscher Taschenbuch Verlag, Monaco, prima edizione nel dicembre 1977.
[30] Olga Wormser-Migot, Le système concentrationnaire nazi (1933-1945), tesi, Presses Universitaires de France, Parigi 1968, p. 541-544.
[31] Höss è stato torturato. Ed è dagli stessi Polacchi che lo apprendiamo. Essi lo hanno autorizzato a dirlo nella sua confessione. Ci possono essere diverse ragioni per questa concessione del giudice istruttore Jan Sehn. Il fatto che Höss tessa le lodi della gentilezza dei suoi carcerieri a Cracovia, potrebbe essere stato voluto per convincerci che, se Höss aveva detto, in precedenza, delle sciocchezze nelle deposizioni assunte dai britannici, era perché aveva parlato sotto tortura, mentre, questa volta, nella sua prigione di Cracovia, si esprimeva in tutta libertà. Nella sua “premura” di confessare tutto ai suoi torturatori britannici, Höss era giunto a parlare del campo di “sterminio” di… “Wolzek nei pressi di Lublino”; però Wolzek non è mai esistito né nei pressi di Lublino, né altrove in Polonia. Höss citava tuttavia questo campo mitico nel documento NO-1210 del 14 marzo 1946, poi nel documento SP-3868 del 5 aprile 1946, poi nel documento Nl-034 del 20 maggio 1946. In questo “Wolzek” terribilmente imbarazzante è stato suggerito di vedere Belzec, il che è assurdo perché in SP-3868 è precisato da Höss che c’erano “altri tre campi di sterminio nel governatorato: Belzekx [sic], Treblinka e Wolzek” (“drei weitere Vernichtungslager in Generalgouvernment: Belzekx, Treblinka und Wolzek”). Questa soluzione assurda è imposta dalla “bibbia” delle ricerche sterminazioniste rappresentata da The Holocaust. The Nuremberg Evidence (Part One: Documents) pubblicato dallo Yad Vashem a Gerusalemme e dallo YIVO Istitute di New York nel 1976 (vedi pag. 334.). Una soluzione ancor meno accettabile è stata proposta dal procuratore Adalbert Rückerl nella nota 5 alle pagine 37-38 del libro citato nella mia nota 29 (Vernichtungslager im Spiegel…). Questo magistrato non esita ad affermare che Wolzek è… Sobibor! Non ci sarà fine nel citare le aberrazioni contenute nelle carte che la giustizia militare britannica ha fatto firmare a Höss. Per prendere in considerazione un solo esempio: Höss colloca a Treblinka un’istallazione di gasazione mediante camion che poi attribuirà a Culmhof! Gli Inglesi gli fanno dire “Treblinka” (NO-1210 e PS-3868), laddove i Polacchi gli fanno dire “Culmhof” (NO-4498 B); però la distanza, in linea d’aria, è di quasi 250 km tra Treblinka, che si trova ad est di Varsavia, e Kulmhof o Chelmno sul Ner, che si trova a ovest di Varsavia. Jan Sehn ha dunque autorizzato il suo prigioniero a fornirci rivelazioni su come era stato trattato prima di godere dell’invidiabile ospitalità della prigione di Cracovia. Gli Inglesi lo avevano seriamente malmenato ed in misura tale che Höss ha dovuto – è lui ad affermarlo -, firmare un verbale di cui non conosceva il contenuto. Inizia scrivendo questo nella sua confessione ai Polacchi di Cracovia: “Es wurde übel zugesetz durch die Feld Security Police.” (Subii un trattamento orribile dalla polizia di sicurezza militare britannica). E aggiunge: “Unter schlagenden Beweisen kam meine erste Vernehmung zustande. Was in dem Protokoll drin steht weiss ich nicht obwohl ich es unterschrieben habe. Doch Alkohol und Peitsche waren auch für mich zuviel.” (il mio primo interrogatorio si è svolto sotto continue percosse. Benché io lo abbia firmato ignoro cosa contenga il verbale. In fin dei conti l’alcol la frusta furono troppo, anche per me.) Höss aggiunge ancora che, trasferito pochi giorni dopo a Minden-on-Weser nella centrale degli interrogatori della zona inglese, subisce un trattamento anche più brutale da parte del procuratore generale inglese, un “Major” (“Dort wurde mir noch mehr zugesetz durch den 1. englischen Staatsanwalt, einem Major”). Afferma che il regime carcerario era in sintonia con l’atteggiamento del “Major”. Per tre settimane non poté né lavarsi né radersi. Per tre settimane dovette tenere le manette! Trasferito a Norimberga, il suo soggiorno in carcere gli fece l’effetto di una cura in sanatorio: un soggiorno ideale in confronto a quello che aveva conosciuto. Ma gli interrogatori, condotti esclusivamente da ebrei, erano terribili, non da un punto di vista fisico, ma psicologico. I suoi interrogatori non gli lasciavano alcun dubbio sul destino che l’attendeva, in modo particolare in Europa orientale. Trasferito in Polonia, subì nuovamente delle prove terribili, ma all’improvviso apparve il procuratore ed Höss fu trattato da quel momento con una sorprendente premura (“anständig und entgegenkommend”). Tutti questi dettagli si trovano nelle pagine 145-147 di Kommandant in Auschwitz (vedi sopra, la mia nota 10). Ciò che Höss non menziona è il risultato di queste torture fisiche e mentali subite prima della sua consegna ai Polacchi. Il 5 aprile 1946, cioè dieci giorni prima della sua apparizione davanti al Tribunale di Norimberga, gli è stato estorta una stupefacente dichiarazione sotto giuramento (in inglese: affidavit) che firmava, benché fosse redatta, non nella sua lingua madre ma… in inglese. Detto affidavit è il documento SP-3868. Davanti al tribunale, il 15 aprile 1946, il procuratore americano (il cui nome era Amen) lesse, in presenza di Höss, il testo di questa dichiarazione. Il testo firmato da Höss fece sensazione. Per quanto riguarda Höss, questi colpì tutti per la sua “apatia” (sic). Le sue risposte si limitavano per la maggior parte a un “sì” quando il colonnello Amen gli chiedeva se tutto quello che leggeva era esatto. Questa “apatia” fu descritta dagli osservatori come “schizoide” o in modo similare. Questi osservatori, accaniti contro Höss, non avevano idea di quanto l’aggettivo “schizoide”, che usavano in modo insultante, fosse esatto e riflettesse una triste realtà: Höss era in uno stato anormale, era “due uomini contemporaneamente”, lacerato, intorpidito, diviso in due o quasi: “schizoide” in verità come può esserlo un uomo torturato fisicamente e psicologicamente e che, come ha detto nella sua confessione, si chiedeva che cosa ci facesse davanti a questo formidabile tribunale. È necessario leggere il testo del dialogo tra il colonnello Amen e l’imputato Höss del 15 aprile 1946 nel volume XI, p. 425 e seguenti, del grande processo di Norimberga (riferimenti all’edizione francese).
[32] Sulle torture sistematicamente inflitte dagli Americani ai loro prigionieri tedeschi, si veda l’indice dei nomi del libro di A. R. Butz (The Hoax of the Twentieth Century) per i riferimenti relativi al giudice Gordon Simpson o al giudice Charles F. Wennerstrum. Consiglio anche uno dei più bei libri mai scritti in favore dei diritti umani: Manstein, His Campaign and his Trial, di Sir Reginald Thomas Paget (Collins, Londra 1951), corredato da una sorprendente prefazione di Lord Hankey. A pagina 109, Sir Paget menziona il fatto che la commissione d’inchiesta americana Simpson-Van Roden-Laurenzen aveva riferito “tra le altre cose che su 139 casi esaminati si era scoperto che 137 [soldati e ufficiali tedeschi] avevano avuto i testicoli distrutti per sempre dai calci ricevuti dalla squadra americana per le indagini sui crimini di guerra” (“reported among other things that of the 139 cases they had investigated 137 had had their testicles permanently destroyed by kicks received from the American War Crimes Investigation team”).
[33] Il dott. ing. Dürrfeld era il direttore ad interim della fabbrica Buna ad Auschwitz. Nel documento NI-034 si fa dire a Höss che il dott. Dürrfeld era a conoscenza della gasazione di esseri umani a Birkenau e che ne parlava ai suoi colleghi. Però, nel documento NI-11046, l’interessato risponde: “È un fatto pietoso [queste gasazioni], di cui ho sentito parlare per la prima volta dalla radio e da resoconti sui giornali. Devo dire che questo è un marchio d’infamia per il popolo tedesco, questo lo devo dire” (“It is a sorry fact that I heard of first through the radio and through newspaper reports. I must say that it is a brand of infamy for the German people, that I must say”). Vedi egualmente il documento NI-9542 per Otto Ambros o il documento NI-11631 per Kurt Rosenbaum. Entrambi gli uomini che erano in una buona posizione per sapere tutto quello che succedeva ad Auschwitz, affermano di non aver mai saputo nulla di gasazioni. Alcuni internati anche hanno avuto il coraggio di scrivere che non avevano mai visto una “camera a gas” ad Auschwitz o a Birkenau, benché si fossero trovati molto vicini al luogo dove queste “camere” avrebbero dovuto trovarsi. Questo è il caso di Benedikt Kautsky, il socialdemocratico austriaco di origine ebraica. Ha vissuto sette anni in diversi campi di concentramento. Sua madre morì a Birkenau l’8 dicembre 1944, all’età di 80 anni. In Teufel und Verdammte (Verlag der Wiener Volksbuchhandlung, Vienna 1948), egli scrive, p. 316, di non aver visto personalmente queste “camere a gas” nel campo. Questo non gli impedisce peraltro di impegnarsi, subito dopo, in una sorta di descrizione di ciò che non ha visto. Lo fa sulla fiducia di coloro “che hanno visto”.
[34] Faccio qui allusione ad alcuni imputati del processo di Francoforte (1963-1965), il cui processo Hermann Langbein sostiene di aver descritto in Der Auschwitz-Prozess, libro da me citato in precedenza, cfr. nota 9. Franz Hofmann avrebbe usato l’espressione “aiutare a spingere”; l’avrebbe curiosamente usata al plurale: “haben wir […] mitgeschoben” (p. 241). Hans Stark avrebbe aiutato un infermiere a versare del gas attraverso un’apertura nel tetto della “camera a gas”, ma Stark è confuso, molto vago ed il presidente dà l’impressione soprattutto di fargli recitare un testo (p. 439).
[35] Si dovrebbe prestare la massima attenzione al 42° ed ultimo volume dei resoconti del grande processo di Norimberga. Esso si apre con il lunghissimo documento (153 pagine) PS-862. Si tratta di una sintesi del colonnello britannico Neave. Egli era stato incaricato di riassumere la mole di indagini condotte nei campi di prigionia degli Alleati. Ne emerge lo stesso contenuto evidenziato dal documento “Politische Leiter-54” (p. 348): i 26.674 ex dirigenti politici interrogati hanno dichiarato che solo dopo la capitolazione del maggio 1945 hanno sentito parlare, per la prima volta, dell’uccisione in massa di ebrei nei campi detti “di sterminio”. (“Sie von einer Vernichtung von Juden in sog. Vernichtungslagern erst nach der Kapitulation im Mai 1945 Kenntnis erhielten.”)
[36] In una corrispondenza privata, Robert Servatius, che fu avvocato della difesa al grande processo di Norimberga (1945-1946) e che patrocinò Adolf Eichmann al “processo di Gerusalemme” (1961), mi ha parlato di “pretesa gasazione” e di “persone che si pretende che fossero state gassate” (“der behaupteten Vergasung”, lettera del 22 febbraio 1975; “der in Auschwitz angeblich vergasten Personen”, lettera precedente, del 21 giugno 1974). Il celebre avvocato riassume in una frase la ragione per cui i difensori tedeschi sono attenti a non sollevare la questione dell’esistenza di “camere a gas” in tribunale: pare, egli dice, che per i difensori il problema della esistenza di camere a gas sia passato in secondo piano rispetto alla eventuale partecipazione dei loro assistiti alle pretese gasazioni (“Anscheinend ist die Frage von der Existenz von Gaskammern für die Verteidiger zurückgetreten, gegenüber der Frage der Beteiligung ihrer Mandanten an der behaupteten Vergasung”). Non si potrebbe dirlo meglio. L’avvocato inoltre precisava, in risposta ad una delle mie domande su Eichmann, che quest’ultimo aveva dichiarato (a chi? la lettera non è chiara su questo punto) di non aver mai visto una camera a gas, né di essere mai stato a conoscenza di segnalazioni su di esse (“Eichmann hat erklärt, dass er niemals eine Gaskammer gesehen habe oder dass ihm darüber berichtet worden sei” (lettera del 22 febbraio 1975). Gli stenogrammi del processo (consultabili in diverse lingue presso il Centre de documentation juive contemporaine – CDJC – di Parigi) dimostrano che Eichmann non ha apparentemente saputo nulla sulle “camere a gas”, tranne ciò che aveva letto in carcere nella “confessione” di Höss (vedi l’udienza del 19 aprile 1961, segnature JI-MJ a 02 RM).
[37] È alla televisione francese che Albert Naud, visibilmente commosso, ha fatto questa dichiarazione improvvisata (Antenne 2, “L’huile sur le feu” (L’olio sul fuoco), programma di Philippe Bouvard, ottobre 1976).
[38] Questo compiacente avvocato era Anton Reiners, di Francoforte.
[39] Raul Hilberg, The Destruction of the European Jews, Chicago, Quadrangle Books, 1967; Gerald Reitlinger, The Final Solution, 2ª ed., Vallentine Mitchell, Londra 1968; H. G. Adler, Der Verwaltete Mensch, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1974; Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, Europa Verlag, Vienna 1974; Olga Wormser-Migot, Le Système concentrationnaire nazi (1933-1945), Presses Universitaires de France, Parigi 1968; Serge Klarsfeld, Le Mémorial de la déportation des Juifs de la France, Association pour le jugement des criminels nazis qui ont opéré en France, Parigi 1978.
[40] Estratto da quello che i Tedeschi chiamano “Bormann Vermercke”. La parte finale di questi “Bormann Vermercke” è stato pubblicata in Francia con il titolo Le testament politique de Hitler, versione francese e presentazione di François Genoud, Arthème Fayard, Parigi 1959, p. 71-72.
[41] “Dass sie deshalb [ihre Konfession] verfolgt worden waren, wie ich glaubte, liess manchmal meine Abneigung gegenüber ungünstigen Aeusserungen über sie zum fast zum Abscheu werden.” (Mein Kampf, Zentralverlag der NSDAP, Monaco 1942, p. 55) “Die grossen Meister der Lage” (I grandi maestri della menzogna) è un motto di Schopenhauer, ripreso da Hitler, p. 53 di Mein Kampf.
[42] Dichiarazione pubblicata in The Jewish Chronicle (Londra) dell’8 settembre 1939, p. 1.
[43] Daily Express (Londra), 24 marzo 1933, p. 1.
[44] “Nach Beendigung des Krieges werde er [Hitler] sich rigoros auf den Standpunkt stellen, dass er Stadt für Stadt zusammenschlage, wenn nicht die Drecksjuden rauskämen und nach Madagaskar oder einem sonstigen jüdischen Nationalstaat abwanderten” (Henry Picker, Hitlers Tischgespräche im Führerhauptquartier 1941-1942, Percy Ernst Schramm […], Stoccarda 1963, p. 471).
[45] Abbondano i testi e i fatti che dimostrano che le autorità tedesche vietavano e reprimevano questi eccessi, anche quando potevano esserne vittime gli ebrei. Non citerò qui che un testo e due fatti. Il testo è quello del generale von Roques del 29 luglio 1944, sul fronte russo (documento NOKW-1620). Per quanto riguarda i fatti, essi sono riportati nel documento OKW-501. Ecco il primo fatto: nella primavera del 1944, a Budapest, un tenente uccide un’ebrea che voleva denunciarlo perché le aveva rubato, con alcuni suoi uomini, qualche oggetto di sua proprietà. Un tribunale militare tedesco lo condannò a morte ed egli è stato fucilato, mentre alcuni dei suoi sottufficiali e degli uomini di truppa vengono condannati a lunghe pene detentive. Ecco il secondo fatto: nei pressi di Rostov (URSS), due soldati sono stati condannati a morte da un tribunale militare tedesco (e giustiziati?) per aver ucciso l’unico abitante ebreo di un villaggio. Si trovano questi esempi ed altri fatti dello stesso genere nel 42° e ultimo volume dei resoconti del grande processo di Norimberga. Purtroppo, quest’ultimo è praticamente ignorato da tutti. È particolarmente ignorato dai giudici che si permettono d’invocare “ciò che è stato stabilito a Norimberga” ma non dedicano abbastanza cura nel rileggere i documenti pur tuttavia raccolti dai vincitori che avevano l’incarico di giudicare i vinti. Lo storico non può permettersi questa leggerezza in quanto sa che i vincitori hanno commesso due atti molto gravi di disonestà:
1 – hanno effettuato loro stessi la cernita dei documenti senza coinvolgere la difesa;
2 – nel pubblicare i 42 volumi hanno condotto una sorta di selezione senza includere numerose elementi presentati dalla difesa.
Si deve sapere che ancora oggi, a quasi 35 anni dalla fine della guerra, gli Alleati mantengono il segreto su un’enorme quantità di documenti da cui, si può presumere, essi abbiano già prelevato tutto quello che, ai loro occhi, poteva incriminare la Germania. Si immagina l’enorme montagna di “crimini di guerra” che, con tali procedimenti, si potrebbe far giudicare da un “tribunale militare internazionale” composto dai vinti, che debba giudicare i loro vincitori? Ma, per tornare alla questione degli “eccessi” o “crimini di guerra”, mi permetto di suggerire che l’esercito tedesco e, in particolare il corpo delle SS, sia stato terribilmente duro, sia in combattimento che nelle misure di contrasto relative alla lotta partigiana, ma che sia stato, in qualche modo, meno temibile per i civili non-combattenti di molti altri eserciti. Più un esercito è disciplinato e guidato fermamente e meno, in linea di principio, le popolazioni civili dovranno temere gli eccessi di ogni genere. In questa prospettiva, le bande partigiane, quale che sia la simpatia che si possa provare per la causa che esse sono supposte difendere, sono quasi sempre più temibili per la popolazione civile.
[46] Questa consegna fu descritta con il nome di “Operation Keelhaul”. Vedi The Hoax of the Twentieth Century di Arthur R. Butz, p. 248-249. Il termine “keelhaul” è eloquente; questo verbo inglese significa “infliggere la punizione della stiva umida a qualcuno, o tirarlo da un lato all’altro di una nave lo facendo passare sotto la chiglia”.
[47] Faccio notare che nella stessa epoca, e senza alcuna giustificazione militare, la segregazione razziale nei confronti dei neri (talvolta denunciata sui giornali francesi della “collaborazione”) proliferava presso i nostri alleati americani e sudafricani.
[48] Discorso pronunciato a Posen il 6 ottobre 1943, p. 169 dei Discours secrets d’Heinrich Himmler, Gallimard, Parigi 1978. Si tratta della traduzione francese di Geheimreden 1933 bis 1945 und andere Ansprachen, Verlag Ullstein, Propyläen, Francoforte 1974. Questo libro è da usare con precauzione, e in particolar modo la sua traduzione in francese.
[49] Il testo del “Madagaskar Projekt” è poco conosciuto. Si trova presso il centro di documentazione ebraica contemporanea di Parigi. Porta la catalogazione 172 della Polizia di Israele (Quartier generale, 6° ufficio). Sembra che questo documento non sia stato portato alla luce che nel 1961 in occasione del processo di Adolf Eichmann. Si compone di una lettera di Theodor Dannecker, del 15 agosto 1940, indirizzata al segretario di legazione Rademacher e dello stesso rapporto che sembra essere, peraltro, una bozza né firmata né datata. La sua catalogazione al CDJC di Parigi è DXII-172.
[50] Vedi la lettera di Rademacher all’ambasciatore Bielfeld del 10 febbraio 1942 (documento NG-5770).
[51] “Soluzione globale” (“Gesamtlösung”) e “soluzione finale” (“Endlösung”) sono i due termini intercambiabili usati da Göring nella sua famosa lettera del 31 luglio 1941 a Reinhard Heydrich. Gli sterminazionisti hanno disquisito all’infinito su questa lettera molto breve (documento SP-710) e, in particolare, su quelle due parole di Göring. Hanno tanto più speculato su questo testo da aver – almeno alcuni di loro – cinicamente amputato della prima metà la sua prima frase dove vi era una chiara e nitida spiegazione del significato che si deve dare a queste due parole. Queste due parole, che in realtà sono una sola, implicano emigrazione o evacuazione (“Auswanderung oder Evakuierung”). Gerald Reitlinger si permette di citare integralmente la breve lettera mettendo però, all’inizio del testo, tre puntini di sospensione. Il lettore di Reitlinger vede quindi che manca l’inizio della frase che sta per leggere ed è portato a pensare che non vi sia certamente nulla d’importante nel frammento che manca. È difficile agire in modo più disonesto di Reitlinger! (vedi Gerald Reitlinger, Die Endlösung, “The Final Solution”, traduzione dall’inglese in tedesco da J. W. Brügel, quarta edizione riveduta, Berlino, Colloquium Verlag, 1961, p. 92.) Si troverà il testo, nella sua interezza, a pagina 32 del notevole libro di Wilhelm Stäglich, Der Auschwitz Mythos, Legend oder Wirklichkeit?, Grabert Verlag, Tübingen 1979. Wilhelm Stäglich è un ex magistrato di Amburgo che ha subìto una persecuzione implacabile dal 1973 a causa delle sue convinzioni revisioniste.
[52] Si trovano menzioni di queste nascite nel “calendario” degli Hefte von Auschwitz (Quaderni di Auschwitz), pubblicati dal Museo di Stato d’Oswiecim, in particolare nei quaderni 7 e 8. I Tedeschi tenevano un registro di tutte le nascite, comprese quelle ebraiche. Tenevano un registro di tutto. Ogni intervento chirurgico, ad esempio, era annotato con il nome dell’internato, il suo numero di matricola, l’oggetto e il risultato dell’operazione (in latino), la data, la firma del chirurgo. Nei crematori, l’estrazione di un dente d’oro da un cadavere era oggetto di un rapporto (Meldung) dettagliato. Quest’ultimo punto, da solo, rende assurda la leggenda dei massacri di massa con estrazione di denti d’oro su scala quasi industriale.
[53] Personalmente ho fatto un’indagine minuziosa sulle esecuzioni sommarie effettuate dai resistenti in una piccola regione della Francia; ho avuto la sorpresa di scoprire, di constatare, che le comunità zingare avevano pagato un pesante tributo di morti, non a causa dei Tedeschi ma a causa dei resistenti. Questa indagine non può attualmente essere pubblicata in Francia.
[54] Sull’esistenza di una scuola per muratori vedi, ad esempio, la testimonianza di Franz Hofmann nel libro di Hermann Langbein, Der Auschwitz-Prozess, Europa Verlag, Vienna 1965, p. 236. Sulle squadre di apprendisti (Lehrlings-Kommando) vedi la testimonianza del detenuto Curt Posener nel documento NI-9808.
[55] Georges Wellers, L’Étoile jaune à l’heure de Vichy: de Drancy à Auschwitz (La stella gialla ai tempi di Vichy: da Drancy ad Auschwitz), Fayard, Parigi 1973, p. V, 4, 5, e 7.
[56] La distanza da Drancy ad Auschwitz (1.250 km) è stata coperta, di solito, in due giorni.
[57] Non posso fare a meno di riferire qui i casi di Maurice Bardèche, Paul Rassinier, Manfred Roeder, Thies Christophersen, Wilhelm Stäglich, J. G. Burg (ebreo), Hellmut Diwald, Udo Walendy, Arthur R. Butz ed il mio. Nulla manca: carcere, violenze fisiche, multe, incendi dolosi, carriere spezzate, sentenze giudiziarie incredibili, calunnie pure, esilio forzato. Neppure una associazione per la difesa della libertà di espressione, né un singolo gruppo di scrittori ha levato il minimo segno di protesta contro i processi stupefacenti fatti dal gruppo Springer nei confronti sia di David Irving, sia del professore universitario Hellmut Diwald. In questo gara di persecuzioni, la Germania è incontestabilmente in testa. La Francia è al secondo posto. Il Sud Africa non è lontano.
[58] Questa decisione è del 17 maggio 1979 (Bundesprüfstelle für jugendgefährdende Schriften, Entscheidung Nr 2765). L’esperto scelto è stato il procuratore Adalbert Rückerl. Quest’ultimo era giudice e di parte in quanto ha dedicato la sua vita e alcuni dei suoi libri a difendere una tesi (quella dello sterminio) che Arthur R. Butz considera, al pari di me, erronea. Il testo della sentenza è di 55 pagine. Esso apparrà tra qualche anno, probabilmente, come un monumento di incompetenza storica. Il presidente del tribunale era Rudolf Stefen. Il professor Konrad Jentzsch ha rappresentato l’arte (Kunst), lo scrittore Bernhard Ohsam, la letteratura; Gunther Roland, il corpo accademico (Lehrerschaft); il prelato dott. Hermann, le Chiese.
[59] Tale fu il mio caso a Lione il 29 gennaio 1978 al simposio nazionale su “Chiese e cristiani di Francia nella seconda guerra mondiale”.
[60] Tra i 42 volumi di relazioni (parziali) del processo di Norimberga, cfr. vol. III, p. 574-575 dell’edizione francese, e leggere il PS-2738 (dichiarazione giurata – affidavit – di W. Höttl).
[61] Pagine 120-122, 125, 128, 136, 141, 149 e 157, sotto il titolo “Nahum Goldmann : au nom d’Israël”. Goldman afferma che queste colossali riparazioni “costituiscono una innovazione straordinaria nell’ambito del diritto internazionale”. Esse erano contrarie alla costituzione tedesca. Egli ha dettato le sue condizioni ad Adenauer nel 1950 ed ha ottenuto 80 miliardi di DM, da 10 a 14 volte in più rispetto all’importo inizialmente previsto. Egli asserisce: “Senza le riparazioni tedesche […], Israele non avrebbe la metà della sua infrastruttura attuale [1976]: tutti i treni in Israele sono tedeschi, i battelli sono tedeschi, così come l’elettricità, una grande parte dell’industria… per non parlare delle pensioni individuali versate ai sopravvissuti […]. Certi anni, le somme di denaro che Israele riceveva dalla Germania superavano l’importo delle collette dell’ebraismo internazionale – moltiplicandole per due o tre.” Il giovane contribuente tedesco del 1979, che non ha nulla a che spartire con la guerra del 1939-45, paga, naturalmente, la sua parte.
[Addizione del 1985: Secondo Raul Hilberg, il governo tedesco ha calcolato che i suoi obblighi lo porteranno a versare delle riparazioni finanziarie persino al di là dell’anno 2000 (Documents of Destruction, Quadrangle Books, Chicago 1971, XII-243 p.; p. 241-242). N. Goldmann doveva nel 1981 qualificare queste somme come “astronomiche” (trasmissione televisiva francese “Profil: Nahum Goldmann”, Antenne-2, 18 agosto 1981, 22h).
Tuttavia si può considerare che il mito dell’Olocausto sia meno importante per le sue ricadute finanziarie che non per i benefici politici e morali che ne sono stati finora tratti. Reso molto inquieto dai progressi del revisionismo storico, il Professor W. D. Rubenstein, della Deakin University (Australia), scriveva nel 1979:
“Se si dimostrasse che l’Olocausto è una mistificazione, scomparirebbe l’arma n. 1 dell’arsenale della propaganda d’Israele” (Nation Review, 21 juin, 1979, p. 639). Il Professor israeliano Saul Friedländer doveva dichiarare da parte sua nel 1980: “La scuola degli storici revisionisti, ossia coloro che dicono che l’Olocausto non è mai esistito, che è un’invenzione ebraica, è più inquietante delle prese di posizioni politiche degli Stati” (Australian Jewish News, 3 ottobre 1980, p. 13). Conviene rimarcare che il Professor Friedländer fornisce, così, la propria definizione degli storici revisionisti. Più esatto sarebbe dire che, per questi ultimi, l’Olocausto degli ebrei è un’invenzione della propaganda di guerra degli Alleati nel loro insieme. Non c’è “complotto ebraico per estorcere denaro”. C’è stata dopo la guerra una credenza d’ordine generale in uno sterminio degli ebrei che delle varie entità, ciascuna alla sua maniera, hanno tentato di sfruttare. Ogni Stato si fonda, peraltro, su delle credenze più o meno mitiche.
Sino al 31 dicembre 1980 la Germania dell’Ovest aveva versato delle riparazioni finanziarie a 4.344.378 vittime o aventi diritto con la seguente ripartizione: circa 40% in Israele, 20% in Germania dell’Ovest e 20% nel resto del mondo (Canadian Jewish News, 11 dicembre 1981, p. 4). Esistono, nel mondo, comunità ebraiche in 63 paesi (registrate dal World Jewish Congress) ed associazioni di anziani detenuti di Auschwitz in 25 paesi.]