Presso la XVIIa sezione del tribunale penale di Parigi, il CRIF* e Jahvé contro il Professor Robert Faurisson
* Conseil Représentatif des Institutions Juives de France
Mal gliene incolse. Non bisognava attaccar briga con il Professor Faurisson. È ciò che hanno imparato a loro spese, prima, il sostituto procuratore della Repubblica, Anne de Fontette, iniziatrice delle azioni giudiziarie, poi le tre parti civili (LICRA – Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme – , MRAP – Mouvement contre le Racisme et pour l’Amitié entre les Peuples –, LDH – Ligue des droits de l’homme) e, infine, il nuovo presidente della XVIIa sezione, Nicolas Bonnal.
Scienza e determinazione del Professor Faurisson
Per quattro ore e un quarto, martedì 11 luglio scorso, in un’aula della XVIIa sezione del tribunale penale di Parigi surriscaldata dalla canicola, poco più di cento revisionisti venuti dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Svezia, dalla Svizzera, dall’Italia, dall’Iran e da altri paesi ancora per sostenere il professore hanno assistito ad un combattimento che si è volto a vantaggio della difesa. Settantasettenne ma dotato di una rude energia, Robert Faurisson è un professore universitario in pensione che ha insegnato alla Sorbona ed a Lione. Di stile “British” (è suddito britannico e cittadino francese), egli sembra determinato. La sua memoria farà dire all’avvocato della LICRA: “Non si può sperare che quello, con la sua memoria alimentata dall’odio, finisca con l’Alzheimer”. È su un tono sarcastico che il presidente si azzarda ad iniziare l’interrogatorio del professore ma l’interessato lo avverte che non accetterà che si continui a parlargli a quel modo. E il tono cambia. Poi, per tre volte, il magistrato si fa riprendere nella sua lettura di un documento. I suoi tre errori, fa ben notare il professore, provengono dal fatto che il magistrato ha fatto affidamento su una copia errata (il testo della citazione) mentre avrebbe dovuto riferirsi al testo originale di un documento di base: il verbale di un capo-brigadiere investigatore. Quando il professore si mette ad esporre i suoi mezzi di difesa ed a sviluppare l’argomentazione revisionista, il presidente sembra prendere coscienza della propria svista: egli ha a che fare con un avversario temibile e le argomentazioni revisioniste si rivelano decisamente assai più solide di quanto egli abbia mai immaginato. A più riprese, si vedrà il presidente prostrato nascondersi il viso tra le mani. “Seduta di sverginamento di un magistrato!”, concluderà un revisionista presente all’udienza. La legge ci vieta di riprendere qui [in Francia] le argomentazioni, sempre basate su prove, del docente universitario. Ci si accontenterà di ricordare che quest’ultimo ha tenuto a precisare che egli non ha l’ambizione di ricercare la “Verità”, ma che aspira solo all’esattezza. Secondo le sue spiegazioni, egli ha dapprima condotto un’indagine di polizia tecnica sul posto, allo Natzweiler-Struthof, ad Auschwitz, a Treblinka e in molti altri luoghi; poi, per il tramite di chimici al lavoro in laboratorio, ha condotto un’indagine di polizia scientifica. A guisa di giudice istruttore, egli si è sforzato di istruire un processo a carico e a discarico. Ha passato al setaccio un numero considerevole di testimonianze. Nello studio dei documenti, egli non ha fatto altro che seguire il metodo storico più classico. Ha messo in pratica una prassi disciplinare che aveva insegnato in passato all’università di Lione e che aveva ricevuto la denominazione ufficiale di “Critica dei testi e documenti (letteratura, storia, mezzi di comunicazione)”. Un revisionista, egli precisa, ben lungi dall’essere un “negatore” o un “negazionista”, è un ricercatore che, al termine delle proprie indagini, può essere portato ad affermare che tale “Verità” è contestabile da un punto di vista scientifico. Perciò il diritto alla ricerca storica non dovrebbe di norma vedersi imporre in anticipo sia dei limiti che una conclusione. Il ricercatore non deve lasciarsi imbavagliare proprio come il magistrato non deve lasciarsi impegolare da una legge d’occasione come la legge anti-revisionista Fabius-Gayssot del 13 luglio 1990. D’altronde fino ad ora, per un solo e medesimo delitto, che egli ha ostinatamente ripetuto da un quarto di secolo, nelle stesse forme e in condizioni identiche, il professore si è visto giudicare in tutti i modi possibili; egli è stato spesso condannato ma talvolta è stato prosciolto ed è anche accaduto che, in un tale processo, una corte d’appello abbia reso un esplicito omaggio alla qualità del suo lavoro al punto da pronunciare: “Il valore delle conclusioni difese dal Sig. Faurisson [sul “problema delle camere a gas”] rientra dunque nel solo campo di valutazione degli esperti, degli storici e del pubblico”. Se, nel corso di questi ultimi anni, le sue pubblicazioni non sono più state oggetto di azioni giudiziarie, ciò è dovuto al fatto che la Legge è fluttuante, che le sentenze giuridiche subiscono dei capovolgimenti e che i magistrati francesi sono innanzi tutto uomini e donne, che, in generale, intendono servire le leggi ma nient’affatto asservirsi ad esse.
All’origine dell’imputazione, un’inchiesta raffazzonata
Robert Faurisson è prevenuto di aver concesso nel 2005 un’intervista telefonica dal contenuto revisionista alla stazione radio-televisiva iraniana Sahar 1. L’accusa (nel linguaggio dei tribunali penali francesi, la “prevenzione”) fa valere il punto che essendo stata trasmessa via satellite il programma può essere stato captato in Francia, ma nulla prova che questo sia stato il caso. Questa stessa accusa presenta un “ritrascrizione delle affermazioni del Sig. Faurisson sulla cassetta consegnata dal CSA [Conseil supérieur de l’audiovisuel]” Il Sig. Faurisson ammette senza difficoltà che le affermazioni registrate corrispondono al suo pensiero ma, vista la gran quantità delle interviste che egli ha concesso alle stazioni o alle agenzie estere, soprattutto successivamente al suo soggiorno in Iran, nel novembre 2000, su invito del governo iraniano, egli si dichiara incapace di precisare la data ed il luogo di quell’intervista. E si stupisce del fatto che l’accusa possa affermare, senza indagine su questi punti, che l’intervista si sarebbe svolta il 3 febbraio 2005 (di fatto, giorno della diffusione) e che, secondo un’oscura formulazione, quest’intervista avrebbe avuto luogo “a Parigi […], in ogni caso sul territorio nazionale”. Da parte sua, l’accusa ha talmente pasticciato la propria inchiesta al riguardo da non poter dire da dove provenga la cassetta, una cassetta che, per di più, può essere stata oggetto di manipolazioni dato che, amputata dell’inizio e dalla fine delle dichiarazioni del professore, essa non può mostrare in quale contesto esatto le affermazioni siano state fatte. [Essendo il CSA apparentemente sprovvisto dei formidabili mezzi tecnici indispensabili per la registrazione, giorno e notte, di molteplici stazioni del mondo arabo-musulmano, bisogna supporre che il lavoro di ascolto sia stato effettuato, in realtà, da un servizio di informazioni quale, per esempio, il famoso MEMRI (Middle East Media Research Institute), appendice dei servizi di informazioni militari israeliani, specializzato nella caccia al cyber-revisionismo.] In mancanza di prove, non si può, di conseguenza, sapere se il professore si sia espresso a partire dalla Francia o da un paese straniero. Quanto alle porzioni mancanti della sua dichiarazione, forse esse contenevano un passaggio in cui il professore, come è sua abitudine, ha avvertito il suo interlocutore che simili affermazioni non dovevano essere diffuse in Francia. Per farla breve, non esiste alcuna prova di un’intenzione delittuosa di compiere un reato. Infine, compitando certi nomi propri, sottolinea l’avv. Delcroix, legale del prevenuto, il Sig. Faurisson credeva manifestamente che le sue parole sarebbero state tradotte in persiano, per un pubblico iraniano.
I turbamenti e gli insulti delle parti civili di fronte
alla dimostrazione del professore
A dispetto dei tentativi di ostruzionismo e di un rumoroso intervento delle parti civili che chiedono al presidente di impedire “la diffamazione dei martiri”, il professore enumera, fra lo stupore generale, le gravi concessioni di fondo fatte ai revisionisti per mezzo secolo dai rappresentanti della tesi ufficiale del “genocidio” degli ebrei. Egli ricorda la sconfitta di Raul Hilberg, nel 1985, al primo processo Zündel a Toronto. Il Number One degli storici della “distruzione degli ebrei d’Europa” vi era stato obbligato ad ammettere, sotto giuramento, che non esisteva in fin dei conti nessun documento comprovante una politica di sterminio fisico degli ebrei. Costretto a spiegare come si fosse potuta allora concepire, ordinare ed eseguire una tale politica, egli aveva dichiarato che tutto questo si era svolto “in seno alla vasta burocrazia” tedesca grazie a un’“incredibile consonanza degli spiriti” e attraverso un “comunicazione telepatica consensuale”! Robert Faurisson ricorda anche la disfatta di Jean-Claude Pressac, il 9 maggio 1995, proprio presso la XVIIa sezione. Alcuni giorni dopo questa memorabile udienza, J.-C. Pressac, aveva, di propria iniziativa, firmato una specie di atto di capitolazione, che ci sarebbe stato rivelato cinque anni dopo da una giovane universitaria, Valérie Igounet, alla fine della sua Histoire du négationnisme en France (Seuil, Parigi 2000, pp. 651-652). Per colui che era stato, per anni, il miracoloso salvatore dello sterminazionismo e il protetto della coppia Klarsfeld, il dossier della storia ufficiale dei campi di concentramento era ormai “putrefatto” e non era più buono che “per le pattumiere della storia”. Avvocato dalle forme debordanti e rappresentante della LICRA, Charrière Bournazel esplode per la collera. Con i suoi confratelli, chiede che il presidente tolga la parola al professore. Quindici anni prima, di fronte ad un’identica esigenza, il presidente Claude Grellier, il primo a giudicare le questioni rientranti nella legge del 1990, aveva qualificato la situazione come “surreale” ed aveva fatto notare ai censori che, se Faurisson compariva davanti al suo tribunale, era proprio a causa loro. Avendo il presidente Bonnal ordinato la normale ripresa dell’audizione del prevenuto, il professore prosegue la sua esposizione. Egli accumula le prove, i riferimenti, le indicazioni delle fonti e le precisazioni d’ogni sorta. Egli predice che le parti avverse, non potendo opporre argomenti e prove, cercheranno rifugio nell’invettiva. Ed è ciò che si verifica. Sul conto del professore o sui suoi scritti, non si sente allora altro, dal lato delle parti civili, che parole come “sbruffone”, “nauseabondo”, “falsario”, “menzogna”, “crimine”, “estrema malafede”, “fango” ed ecco che, per finire, l’avv. Charrière Bournazel, assumendo una posa solenne, si proclama “sacro spazzino”. Si sarà sentita, ripetuta dieci volte, la parola “antisemita”, ma senza che sia stato prodotto il minimo indizio del supposto antisemitismo del prevenuto. Più avanti, l’avv. Delcroix osserverà che, ai giorni nostri, si lancia l’accusa di antisemitismo come un tempo si proferiva l’accusa di anticristianesimo. “La conosciamo, Galileo, la vostra motivazione occulta: voi cercate di sminuire la Sacra Scrittura!”
Il sostituto Anne de Fontette fa appello alla protezione di Jahvé
Anne de Fontette porta al culmine le aggressioni verbali delle parti civili. Essa fa il processo a Faurisson ed all’Iran. Per coronare il tutto, la perorazione della sua requisitoria sarà… un’orazione ebraica. Annunciando che sta per dare lettura ad un testo di cui ci confida che le sarebbe piaciuto essere l’autrice, essa legge un’invocazione a “Jahvé” (sic), protettore del “suo popolo eletto” (sic) affinché preservi detto popolo dalle “labbra false” (sic) (dunque dalle “labbra false” di Faurisson). Abbiamo letto bene. Queste parole sono state pronunciate da un sostituto procuratore della Repubblica francese e nell’aula del tribunale di uno Stato laico. Il crocifisso è stato tolto dalle nostre aule di tribunale, ma quel giorno, a Parigi, è stato sostituito dall’evocazione di Jahvé, la cui collera potrebbe ricadere sul capo di Robert Faurisson, il che si può interpretare come un richiamo all’omicidio; infatti, non è forse precisato, nel Salmo 120 [in versione italiana, 119 – NdT], che alle “labbra di menzogna” sono promesse “frecce acute di un prode, con carboni di ginepro”? In questo stesso giorno, l’intero popolo francese viene rimpiazzato dal solo “popolo eletto”. Il presidente Bonnal non proferisce parola. S’immagini la sua reazione se un rappresentante del pubblico ministero avesse letto un’invocazione o ad Allah, o a Gesù (che, secondo il Talmud, è, lo si sa, condannato a bollire negli escrementi fino alla fine dei tempi)? Madame la sostituta dichiara infine che, essendo Faurisson un pluri-recidivo, è opportuno “passare allo stadio superiore” e condannarlo ad una pena detentiva definitiva, “forse con la condizionale”. Essa non sa che il suo predecessore, François Cordier, il 9 maggio 1995, ha chiesto tre mesi di detenzione definitiva. Quanto alle diverse parti civili, esse reclamano, come da rituale, le loro libbre di carne sotto forma di moneta sonante e danzante.
Nicolas Bonnal è stato “formato” dal CRIF e dal Centro Simon-Wiesenthal
Ma perché il presidente Bonnal ha taciuto di fronte all’evocazione intempestiva di Jahvé e a questo richiamo al castigo celeste? È forse perché egli stesso si è gravemente compromesso con due entità vicine alla destra israeliana: il CRIF e il Centro Simon-Wiesenthal? Il CRIF (Consiglio rappresentativo delle istituzioni israelite di Francia) è presieduto dal banchiere Roger Cukierman, che ha in passato esercitato delle alte responsabilità in seno alla banca privata Edmond Rothschild. Ora, in un comunicato datato 5 luglio 2006, il CRIF ha appena segnalato che esso garantisce una “formazione” dei magistrati europei, e, nel novero di questi magistrati, cita in particolare, in primissimo piano, il presidente Nicolas Bonnal, il quale ha partecipato ad uno stage diretto da Marc Knobel, addetto alle ricerche presso il Centro Simon-Wiesenthal di Francia! In secondo luogo, il CRIF ha fieramente nominato un altro tirocinante: François Cordier! Robert Faurisson si troverebbe forse in un’aula rabbinica, che lo giudicherà more Judaico?
Il colpo di tuono dell’avv. Éric Delcroix
Una voce formidabile si fa sentire all’improvviso: quella dell’avv. Éric Delcroix. Lontano da qualsiasi microfono. Non siamo più alle arringhe dei nostri tre emuli di “Mastro Tartaglia” tanto goffi quanto il celebre avvocato del pompiere Camembert, che temeva di “far arrossire i capelli bianchi del presidente”. Con Éric Delcroix siamo all’eloquenza della grande tradizione francese e la dimostrazione è ben strutturata. L’avvocato del professore va a fondo dell’affare: disseziona questo “articolo 24 bis della legge che disciplina la libertà di stampa”, quest’“atroce legge Gayssot” come l’ha qualificata Yves Baudelot, avvocato del giornale Le Monde. Egli ne dimostra il carattere aberrante. Poi, andando al fondo del fondo, mostra l’ignominia giuridica di questo processo di Norimberga che sta alla base dell’articolo 24 bis. Egli ricorda anche che, come giovane avvocato, si recò un tempo in Unione Sovietica per partecipare colà alla difesa dei dissidenti. Oggi, è contro una nuova tirannia che egli persegue il suo compito di difensore delle libertà pubbliche. Per anni, ha combattuto per ottenere la non applicazione dell’articolo 14 della legge sulla stampa che permetteva al ministro dell’Interno di vietare certe opere stampate all’estero. Questa non-applicazione è stata infine ottenuta nei fatti. Poi, è stata approvata dai tribunali amministrativi di Parigi. Finalmente, il legislatore ha di recente abrogato quest’articolo 14. Éric Delcroix dichiara: “Io mi riprometto di avere la pelle dell’articolo 24 bis così come ho avuto la pelle dell’articolo 14.”
La parola, per ultimo, al professor Faurisson
Malgrado gli ostacoli d’ogni sorta, il professore ha potuto parlare per un’ora. Parlerà ancora per una mezz’ora. Egli enumera i principali errori delle parti civili e, soprattutto, quelli del sostituto. Trattiene i propri colpi perché l’avversario è sfiancato, manifestamente sfinito e smarrito. Non si schianta il vinto del giorno. Ma lo si avverte: qualsiasi condanna o qualsiasi nuova imputazione riaccenderebbe le ostilità. In questi ultimi anni, resi edotti dall’esperienza, i magistrati istruttori e i procuratori si erano astenuti dal cercar rogna. Dei nuovi magistrati, inesperti, si sono creduti più scaltri dei loro predecessori. Se ne sono pentiti in questa giornata dell’11 luglio 2006. Potrebbero dolersene ancora di più in un futuro incontro sul terreno giudiziario.
Nell’attesa, la pronuncia della sentenza è fissata al 3 ottobre.
NB: Contrariamente alle loro abitudini, i Tontons Macoutes ebraici non sono venuti e dunque non hanno picchiato nessuno. Uno dei predecessori del giudice Bannal, Jean-Yves Monfort, manifestava, per parte sua, grande compiacimento per la violenza fisica del Betar, del Tagar e della Lega di difesa ebraica. Il 15 gennaio 2005, alle 8.30, sulla radio France-Inter, egli confidava ad Elisabeth Lévy di essere “sconvolto” per il numero dei sostenitori revisionisti; egli si rammaricava di non vedere i “cittadini scendere in strada” al fine di esprimere la loro “indignazione” e per portare così il loro sostegno a dei giudici che egli descriveva come totalmente isolati nella loro battaglia contro il “negazionismo”. Riconoscendo che il suo linguaggio poteva sorprendere, da parte di un magistrato, egli richiamava testualmente al “disordine”!
11 luglio 2006