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Il “problema delle camere a gas (a)”

Défense de l’Occident, giugno 1978, pp. 32-40

 

di Robert Faurisson  (b)

 

“Il Tribunale non sarà legato dalle regole tecniche relative all’amministrazione delle prove.”  (art. 19 dello stesso statuto del Tribunale militare internazionale [1]).

“il Tribunale non esigerà che sia prodotta la prova di fatti di notorietà pubblica ma li riterrà come acquisiti” (art. 21 dello stesso statuto).

 

Nessuno, neppure i nostalgici del III° Reich, si sogna di negare l’esistenza dei campi di concentramento hitleriani. Tutti poi riconoscono che alcuni di questi campi erano dotati di forni crematori. I cadaveri, invece di essere sepolti, venivano bruciati. La frequenza stessa delle epidemie imponeva la cremazione, ad esempio, dei corpi dei morti di tifo.

Numerosi autori francesi, inglesi, americani e tedeschi contestano, invece, l’esistenza, nella Germania hitleriana, di “campi di sterminio”. Questa espressione designa, presso gli storici della deportazione, campi di concentramento che sarebbero stati dotati di “camere a gas”. Tali “camere a gas”, a differenza delle “camere a gas” americane, sarebbero state concepite per compiere uccisioni in massa. Le vittime sarebbero state uomini, donne e bambini di cui Hitler avrebbe deciso lo sterminio a causa della loro appartenenza razziale o religiosa. Si tratta di quello che viene indicato come il “genocidio”. L’arma per eccellenza del “genocidio” sarebbero stati questi mattatoi umani chiamati “camere a gas” e il gas utilizzato sarebbe stato principalmente lo Zyklon B (insetticida a base di acido prussico o cianidrico).

Gli autori che contestano la realtà del “genocidio” e delle “camere a gas” sono definiti “revisionisti”. La loro argomentazione si può riassumere come segue:

Basta applicare a questi due problemi i metodi usuali della critica storica per rendersi conte che ci si trova di fronte a due miti i quali, d’altronde, rappresentano un insieme indissolubile. Non si è mai potuto dimostrare l’intenzione criminale attribuita ad Hitler. Quanto all’arma del crimine, nessuno, in verità, l’ha mai vista.

Ci si trova così dinanzi ad un successo unico della propaganda di guerra e di odio. La storia è piena di imposture siffatte, a cominciare dalle invenzioni religiose sulla stregoneria. Ciò che, in materia, distingue la nostra epoca da quelle che l’hanno preceduta, è che la formidabile potenza dei media ha orchestrato in moda assordante e fino alla nausea “l’impostura del secolo”. Guai, da trent’anni, a colui che osa denunciarla! Conoscerà a seconda dei casi galera, multe, percosse, insulti. La sua carriera potrà essere spezzata o compromessa. Sarà denunciato come nazista. Oppure non si darà voce alle sue tesi o si deformerà il suo pensiero. Non ci sarà un paese più spietato verso di lui della Germania.

Oggi, il silenzio attorno ai contestatari che hanno osato prendersi la responsabilità di scrivere che le “camere a gas” hitleriane, comprese quelle di Auschwitz e di Majdanek, non sono che una menzogna storica, si sta rompendo.(c) È già un progresso. Ma quanti insulti e deformazioni, quando uno storico come Georges Wellers si è deciso finalmente, dieci anni dopo la morte di Paul Rassinier, ad “esporre” una minima parte degli argomenti di questo ex deportato che ha avuto il coraggio di denunciare nei suoi scritti la menzogna delle “camere a gas”! La totalità di una certa stampa, di una letteratura nella quale fa bella mostra un nazismo da sex-shop (e pure un giornale comme Le Monde) (d), s’ingegna a diffondere la notizia che i neonazisti oserebbero negare l’esistenza dei forni crematori. Meglio: questi neonazisti pretenderebbero che nessun ebreo sia stato gassato. Quest’ultima formulazione è abile. Dà infatti ad intendere che i nuovi nazisti, senza contestare l’esistenza delle “camere a gas”, portino il loro cinismo fino a pretendere che solo gli ebrei avrebbero beneficiato del privilegio di non passare per le “camere a gas”!(e)

Il modo migliore, per uno storico, di informarsi sulle vere tesi dei discepoli di Paul Rassinier è leggere l’opera dell’Americano Arthur R. Butz su The Hoax of the Twentieth Century [“L’inganno del XX° secolo”].(f)

Da parte mia, mi permetterò di formulare qui alcune osservazioni dedicate agli storici animati da vero spirito di ricerca.

Innanzitutto farò rilevare un paradosso. Mentre le “camere a gas” costituiscono, per la storiografia ufficiale, la pietra angolare del “sistema concentrazionario nazista” (e allora che, per dimostrare il carattere intrinsecamente perverso e diabolico dei campi tedeschi in rapporto a tutti i campi di concentramento, passati e presenti, occorrerebbe ricostruire con estrema precisione il processo che ha portato i nazisti ad inventare, fabbricare e utilizzare questi tremendi mattatoi umani), si osserva, non senza stupore, che nell’impressionante bibliografia su questi campi non esiste un libro, un opuscolo, un articolo sulle “camere a gas” stesse! Attenzione a non farsi ingannare da certi titoli promettenti! Si esamini il contenuto stesso degli scritti. Chiamo “storiografia ufficiale” la storia scritta sull’argomento dei campi da istituzioni o da fondazioni che utilizzano parzialmente o interamente fondi pubblici.

Bisogna aspettare la pagina 541 della tesi di Olga Wormser-Migot sul Système concentrationnaire nazi per veder comparire una trattazione sulle “camere a gas”. Ma il lettore si trova di fronte tre sorprese:

– La trattazione in questione occupa solo tre pagine.

– È intitolata “Il problema delle camere a gas”.

– Questo “problema” non è altro che quello di sapere se le “camere a gas” di Ravensbrück (in Germania) e di Mauthausen (in Austria) siano realmente esistite; l’autrice conclude formalmente che non sono esistite, e non esamina il problema delle “camere a gas” di Auschwitz o di altri campi, probabilmente perché in questi casi, non esiste “problema” – a suo giudizio.

Ora, al lettore piacerebbe pur sapere perché un’analisi che permette di concludere alla non-esistenza di “camere a gas” in alcuni campi non sia più impiegata allorché si parla, ad esempio, di Auschwitz. Perché lo spirito critico si risveglia, qui, e perché, improvvisamente, cade, là, nel più profondo letargo? Dopo tutto, noi disponiamo, per la “camera a gas” di Ravensbrúck, di mille “prove”, “certezze” e “testimonianze irrefutabili”, ad iniziare da quelle insistenti e circostanziate di una Marie-Claude Vaillant-Couturier o di una Germaine Tillion. C’è meglio. Parecchi anni dopo la guerra e dinanzi ai tribunali inglese francese, i responsabili di Ravensbrück (Suhren, Schwarzhuber, il dottor Treite) hanno continuato a confessare l’esistenza di una “camera a gas” nel loro campo! Sono giunti fino a descriverne vagamente il funzionamento! Alla fine, sono stati giustiziati proprio a causa di quella camera a gas fittizia, oppure si sono suicidati. Stesse confessioni, prima di morire o di essere giustiziati, di Ziereis per Mauthausen o di Kramer per lo Struthof. Oggi, si può visitare la pretesa “camera a gas” di Struthof e leggere in loco l’incredibile confessione di Kramer. Questa “camera a gas”, proclamata “monumento storico”, non è che una frode. Basta un minimo di spirito critico per rendersi conto che un’operazione di gassazione in quel piccolo locale sprovvisto di qualsiasi tenuta ermetica si sarebbe tradotta in una catastrofe per i gassatori e la gente intorno. Per far credere all’autenticità di questa “camera a gas”, garantita “in condizione originale”, si è giunti a dare un grossolano colpo di scalpello in un sottile tramezzo spezzandone quattro piastrelle di ceramica. Si è così allargato il “foro” attraverso il quale Kramer avrebbe versato i cristalli di un gas a proposito del quale non ha potuto dire nulla, se non che, con l’aggiunta di un po’ d’acqua, uccideva in un minuto! Come faceva Kramer ad impedire che il gas rifluisse attraverso il “foro”? Come poteva vedere le sue vittime attraverso uno spioncino che lasciava intravedere solo metà del locale? Come faceva a ventilare il locale prima di aprire la grossa porta rustica di legno grezzo? Forse bisognerebbe chiederlo all’impresa di lavori pubblici che, dopo la guerra, ha riportato il luogo alla supposta “condizione originale”.

Parecchio tempo ancora dopo la guerra, prelati, docenti universitari e anche semplici individui rendevano testimonianze di una verità schiacciante sulle “camere a gas” di Buchenwald e di Dachau. Per Buchenwald, la “camera a gas” doveva scomparire in qualche modo da sola nelle profondità dello spirito di quanti l’avevano vista. Per Dachau, si è proceduto in altro modo. Dopo aver sostenuto, sull’esempio di monsignor Piguet, vescovo di Clermont, che la “camera a gas” era servita in particolare a gassare dei preti polacchi (g), la verità ufficiale è diventata a poco a poco la seguente: “Questa ‘camera a gas’, iniziata nel 1943, era incompiuta nel 1945, alla liberazione del campo. Non ha potuto esservi gassato nessuno”. Il piccolo locale presentato ai visitatori come “camera a gas” è, in realtà, perfettamente inoffensivo e, mentre si possiedono tutti i documenti edilizi immaginabili sulle costruzioni della “Baracke X…” (crematorio e dintorni), non si capisce su quale documento, né d’altronde su quale inchiesta tecnica, ci si sia basati per parlare in questo caso di “camera a gas incompiuta” (?).

Nessun istituto storico ufficiale ha operato, per accreditare il mito delle “camere a gas”, meglio dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco. Lo dirige, dal 1972, Martin Broszat. Collaboratore di questo Istituto fin dal 1955, Broszat è diventato famoso nel 1958 per la pubblicazione (incompleta) delle sedicenti memorie di Rudolf Höss. Orbene, il 19 agosto 1960, questo storico ha annunciato ai suoi compatrioti sbalorditi che di “camere a gas” non ve ne sono mai state in tutto l’anziano Reich [cioè la Germania nei suoi confini del 1937 – NdE] ma soltanto in alcuni “punti scelti”, prima di tutto (?) in alcune località della Polonia, tra le quali Auschwitz-Birkenau. Questa notizia sorprendente è stata da lui comunicata attraverso una semplice lettera al settimanale Die Zeit (p. 16). Il titolo dato alla lettera è stato singolarmente restrittivo: Keine Vergasung in Dachau (“Nessuna gassazione a Dachau”). Broszat non ha fornito, in appoggio alle sue affermazioni, la minima prova. Oggi, quasi diciotto anni dopo la lettera, né lui, né i suoi collaboratori hanno ancora dato la minima spiegazione di questo mistero. Ma sarebbe del massimo interesse sapere:

– come Broszat dimostra che le “camere a gas” dell’anziano Reich sono delle imposture;

– come egli dimostra che le “camere a gas” sono state una realtà in Polonia;

– perché le “prove”, le “certezze”, le “testimonianze” raccolte sui campi che geograficamente ci sono vicini, all’improvviso non hanno più valore, mentre rimangono vere le “prove”, le “certezze”, le “testimonianze” raccolte sui campi polacchi.

Per una specie di tacito accordo, neppure uno tra gli storici ufficiali ha pubblicamente affrontato questi aspetti. Quante volte nella “storia della storia” ci si è affidati alla pura e semplice affermazione di un solo storico?

Ma veniamo alle “camere a gas” polacche.

Per affermare che sono esistile delle “camere a gas” a Belzec o a Treblinka, ci si basa essenzialmente sul rapporto “Gerstein”Questo documento di un SS, che è stata “suicidato” nel 1945 nella prigione di Cherche-Midi (h), brulica di tali assurdità che da tempo è screditato agli occhi degli storici. Questo “rapporto” non è d’altronde mai stato pubblicato, neppure tra i documenti del Tribunale militare di Norimberga, se non in forma inaccettabile (con cesure, falsificazioni, riscritture …). Non è mai stato reso pubblico con i suoi aberranti annessi (la “minuta” o, in tedesco, le “Ergänzungen“).

Per quel che riguarda Majdanek, è d’obbligo una visita diretta. Essa è, se possibile, ancor più risolutiva di quella dello Struthof. Pubblicherò uno studio al riguardo.

Per Auschwitz e Birkenau, si dispone fondamentalmente delle memorie di R. Höss, redatte sotto la sorveglianza dei suoi carcerieri polacchi.(i) In loco si trovano un locale “rekonstruiert“, e delle macerie.

Un’esecuzione col gas non ha niente a che vedere con una asfissia suicida o accidentale. Nel caso di un’esecuzione, il gassatore e i suoi aiutanti non devono correre il minimo rischio. Così, per le loro esecuzioni, gli Americani utilizzano un gas sofisticato, e ciò in uno spazio ridottissimo ed ermeticamente chiuso. Dopo l’uso, il gas viene aspirato e neutralizzato. I guardiani devono attendere più di un’ora per entrare nel piccolo locale.

Ci si chiede come ad Auschwitz-Birkenau, ad esempio, si potevano tenere 2.000 uomini in un locale di 210 metri quadrati (!), quindi gettare (?) su di loro dei granuli del fortissimo insetticida Zyklon B; infine, immediatamente dopo la morte delle vittime, mandare, senza maschere antigas, in quel locale saturo di acido cianidrico, un gruppo di persone per estrarne i cadaveri impregnati di veleno. Due documenti (j) degli archivi industriali tedeschi repertoriati dagli Americani a Norimberga ci dicono d’altra parte che lo Zyklon B aderiva alle superfici, non poteva essere sottoposto a ventilazione forzata ed esigeva un’areazione di circa 24 ore, ecc. Altri documenti che si trovano in loco, negli archivi del museo di Stato di Oswiecim (k), e che non sono mai stati descritti da nessuna parte, mostrano d’altronde che quel locale di 210 metri quadrati, oggi in macerie, non era che un rudimentale obitorio (Leichenkeller), interrato (per proteggerlo dal caldo) e provvisto di un’unica e modesta porta d’entrata e d’uscita.

Sul crematorio di Auschwitz (come in generale su tutto il campo), c’è una mole enorme di documenti, comprese le fatture precise al pfennig o quasi. Invece, sulle “camere a gas” non si ha nulla: né un ordine di costruzione, né un progetto, né un’ordinazione, né una pianta, né una fattura, né una fotografia. In centinaia di processi, non si è riusciti a produrre niente di questo genere.

“Ero ad Auschwitz e posso assicurarvi che non c’era alcuna ‘camera a gas'”. Si è prestato appena ascolto ai testimoni a discarico che hanno avuto il coraggio di pronunciare questa frase. Sono stati processati.(l) Ancora oggi, chiunque, in Germania, testimoni a favore di Thies Christophersen, che ha scritto “Die Auschwitz-Lüge” (La menzogna di Auschwitz) (m), rischia una condanna per “oltraggio alla memoria dei morti”.

All’indomani della guerra, i Tedeschi, la Croce rossa internazionale, il Vaticano (pur così bene informato sulla Polonia), tutti hanno dichiarato pietosamente, con molti altri: “Le ‘camere a gas’? Non sapevamo”.

Ma, mi chiedo oggi, come si possono sapere le cose quando non si sono verificate?

Non è esistita una sola “camera a gas” in un solo campo di concentramento tedesco: ecco la verità.

L’inesistenza delle “camere a gas” è una buona notizia che sarebbe sbagliato tenere ancora nascosta. Come denunciare “Fatima” in quanto impostura non significa attaccare una religione, così denunciare le “camere a gas” come una menzogna storica non vuol dire prendersela con i deportati. Significa rispondere al dovere di dire la verità.

[Avvertenza]

Leggendo queste pagine, qualcuno potrebbe interpretare le mie idee come un tentativo di apologia del nazional-socialismo.

In realtà – per ragioni che non ho motivo di esprimere qui –, la persona, le idee o la politica di Hitler mi allettano tanto poco quanto quelle di un Napoleone Bonaparte. Semplicemente, rifiuto di credere alla propaganda dei vincitori, per i quali Napoleone sarebbe stato “l’orco”, mentre HitIer sarebbe stato “Satana” o “Amalek”.

Dev’esser chiaro per tutti che l’unica preoccupazione che anima le mie ricerche è quella della verità; chiamo “verità” il contrario dell’errore e della menzogna.

Riterrò diffamatoria ogni accusa o insinuazione di nazismo.

Di conseguenza, invito tutti, persone fisiche e persone morali, di diritto pubblico o di diritto privato, a riflettere prima di costringermi, con affermazioni, discorsi, scritti o azioni, a fare ricorso alla legge.

Copia di questo testo sarà inviata a istanze giudiziarie ed amministrative, come pure a giornali, raggruppamenti ed associazioni.

16 giugno 1978

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Note
 
a) L’espressione è di Olga Wormser-Migot, Le Système concentrationnaire nazi (1933-1945), Presses universitaires de France, Parigi 1968, p. 541.
b) Maître de conférences all’università di Lyon-II (specializzato nella critica di testi e di documenti). Il signor Faurisson ci domanda di ricordare che non dà il proprio avvallo, ovviamente, alle opinioni politiche di chi lo pubblica.
 
[1] Di fatto: Tribunale militare inter-alleato avente sede a Norimberga.
 
c) Si veda, oltre a numerosi articoli di stampa uniformemente ostili o offensivi, uno studio di Hermann Langbein in Le Monde Juif, “Coup d’œil sur la littérature néo-nazie” (Occhiata sulla letteratura neo-nazista). H. Langbein è stato internato nel campo di Auschwitz. Ha testimoniato in numerosi processi. Svolge funzioni di alta responsabilità nel mondo degli ex deportati. Una delle sue opere recenti si intitola in francese Hommes et femmes à Auschwitz (in italiano Uomini ad Auschwitz. Storia del più famigerato campo di sterminio nazista). Nemmeno uno dei trenta capitoli di questo libro è consacrato alle “camera à gas”! Invece, vi è costantemente questione di “selezione per la camera a gas”, di “cappelli dei gassati”, degli “scampati alla camera a gas”, ecc. Si veda anche uno studio di Georges Wellers in Le Monde Juif, “La ‘solution finale de la question juive’ et la mythomanie neonazista”. Si veda, inoltre, uno studio di Ino Arndt e di Wolfgang Scheffler nei Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte, “Organisierter Massenmord an Juden in Nazi Vernichtungslagern”.
d) Si veda Le Monde dei 16-17 ottobre 1977, p. 3: “Des centaines de tracts néo-nazis…” (Centinaia di volantini neo-nazisti).
e) Il colmo della deformazione nella recensione dettagliata di un opuscolo sembra essere stato raggiunto, da questo punto di vista, dal Sig. Pierre Viansson-Ponté. Si veda, in Le Monde dei 17-18 luglio 1977, p. 13, il suo articolo su “Le Mensonge”, trattando della traduzione in francese di Did Six Million Really Die? di Richard Harwood. Coloro che hanno rivendicato la responsabilità o giustificato l’assassinio di François Duprat, che aveva distribuito questo opuscolo, hanno fatto proprie le false accuse del Sig. Viansson-Ponté. (v. Le Monde, 23 marzo 1978, p. 7, e 26 aprile, p. 91.)
f) Stesso editore che per R. Harwood. Prima edizione nel 1976, 315 p. (cinquecento pagine in caratteri comuni). L’opera è di un valore scientifica eccezionale.
g) Mgr Piguet, Prison et déportation, p. 77.
h) Si veda l’osservazione del medico legale riferita da Pierre Joffroy in L’Espion de Dieu, p. 262.
i) [Rudolf Höss], Kommandant in Auschwitz, Autobiographische Aufzeichnungen; si veda, sulle gassazioni, pp. 126 e 166. L’ingresso della squadra nella “camera a gas” si fa “sofort”, vale a dire immediatamente (p. 166).
j) Questi due lunghi documenti, di una importanza capitale, non sfruttati, a quanto pare, durante i processi di Gerhardt Peters (direttore della Degesch), sono elencati NI-9098 e NI-9912. Essi annichiliscono, senza possibilità di replica, la “testimonianza” di Höss sulle “camere a gas”.
k) Foto Neg. 6228 e segg.
l) Caso Wilhelm Stäglich, ad esempio (v. l’opera di Butz). 

m) “Die Auschwitz-Lüge”, n° 23 de Kritik, 2341 Kälberhagen; Post Mohrkirch (Germania) 1974, seguito da “Der Auschwitz Betrug”, n° 27 (Das Echo an die Auschwitz Lüge).