Camere a gas – continua il dibattito: Robert Faurisson replica a Enzo Collotti
Storia Illustrata, N. 263, ottobre 1979, pp. 29-37
Per il suo terzo numero consecutivo, Storia Illustrata ospita il dibattito sulle camere a gas aperto dall’intervista a Robert Faurisson. Alla replica del professore dell’università di Lione segue un articolo di Vincenzo Pappalettera, superstite del campo di Mauthausen, «ricercatore» e scrittore della realtà concentrazionaria nazista. Come per l’intervista, anche per la replica, le foto e le didascalie che la accompagnano e commentano sono di Robert Faurisson.
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Ripeto: non bisogna confondere i forni crematori e le pretese «camere a gas» omicide dei campi di concentramento. I forni crematori sono esistiti, e in ciò non vi è nulla di male. Le «camere a gas» sarebbero state una cosa abominevole, se fossero esistite, ma non ne è esistita nemmeno una. Per cercare di farci credere che sono esistite sono stati accumulati falsi e menzogne. Da trentacinque anni i Reitlinger, i Scheffler, i Poliakov, i Friedländer, i Borwicz si sono fatti in quattro per trovare una prova della realtà delle «camere a gas» e del «genocidio». Non ne hanno trovata nemmeno una, come lo dimostrano benissimo i Rassinier, i Scheidl, i Butz, i Stäglich. Da parte mia, ho letto attentamente gli uni e gli altri, e consiglio a tutti di leggere gli autori delle due parti prima di farsi un’opinione personale sulle tesi che si stanno dibattendo: quella degli sterminazionisti e quella dei revisionisti.
In tutti i «documenti Richard Korherr», nel suo rapporto di 16 pagine come in quello di 6 pagine e mezzo, non si parla mai di sterminio, nemmeno per sottintesi.
lo non parlo di «complotto sionista», e, peraltro, in generale, credo poco ai complotti, bensì molto alla forza del conformismo e al piacere della pigrizia intellettuale.
I Tedeschi compilavano, mi viene detto, le liste delle persone che venivano uccise. Tutti lo sanno. E allora? Questi elenchi erano certamente autentici. È opportuno farvi riferimento per determinare il numero vero dei fucilati.
Hitler, né in Mein Kampf, né tantomeno nei suoi discorsi, mai manifesta l’intenzione criminale che gli si attribuisce. Egli dice che se gli ebrei contavano sulla guerra per annientare i loro nemici, sarebbero stati essi a essere annientati. È una minaccia classica che si può rilevare anche nel campo avverso. Quando un Paese è in guerra, la sua propaganda sviluppa obbligatoriamente l’idea che il nemico è, per definizione, da sterminare fino all’ultimo uomo. Peraltro la propaganda aggiunge anche che, necessariamente, la giusta causa trionferà su quella cattiva. Dio è con noi e Satana è con gli altri.
Il «Kommissar-Befehl» non ha rapporto con il nostro soggetto; si faccia riferimento ai testi (Doc. Nuremberg NOKW-1076).
Rudolf Höss è stato torturato. Gli inglesi lo hanno cosi ben interrogato «con il nerbo e con l’alcool», che egli ha più volte riconosciuto persino l’esistenza di un campo di «sterminio» a Wolzek, in Polonia. Ora, Wolzek è un luogo… che non esiste. Al «processo di Malmedy» gli americani hanno usato la tortura su grande scala. Come credere altrimenti che tanti Tedeschi abbiano finito per confessare ai francesi, agli inglesi e ad altri l’esistenza e il funzionamento di «camere a gas» in campi in cui lo stesso professor Collotti, suppongo, è costretto a riconoscere che non ci sono mai state delle «camere a gas»? Leggete il libro di Sir Reginald Paget su Manstein (Manstein, His Campaign and His Trial, Collins, Londra 1951. La prefazione, anch’essa veramente notevole, è di Lord Hankey. Questo libro fa giustizia della leggenda degli stermini di massa a opera degli Einsatzgruppen). L’opera non manca di sottili rilievi sul modo di ottenere delle «confessioni» senza toccare l’accusato. È sufficiente, per esempio, fargli sentire le urla di giovani soldati tedeschi ai quali vengono schiacciati i testicoli. Nelle galere della «Liberazione» si è torturato molto. D’altronde, ovunque nella Storia si tortura e si umilia. Più un esercito è indisciplinato, più può torturare.
Talvolta viene detto che i Tedeschi non hanno fatto mistero delle loro intenzioni criminali, e che a questo proposito si sono spiegati chiaramente. Poi, quando io chiedo delle prove, mi viene risposto che i Tedeschi non erano stupidi a tale punto da parlare chiaramente. Mi si dice che usarono degli «eufemismi». Io allora chiedo che mi venga provato che si trattava di «eufemismi». Debbo allora constatare che non si hanno prove. Certamente, poteva accadere che i Tedeschi dessero istruzioni perché venisse usata una parola piuttosto che un’altra, e ciò per evitare che il nemico ne desumesse argomenti per la sua propaganda. Ma allora, di fatto, ci sono delle istruzioni, e quindi lo storico può constatare se ci sono degli «eufemismi», e soprattutto può vedere qual è il vero senso che si è cercato di attenuare. C’è poco da speculare.
La l.G. Farben deteneva il 42,5% delle azioni di una holding che controllava la compagnia DEGESCH, la quale fabbricava numerosi insetticidi, tra i quali anche lo Zyklon B. Che c’è di male in ciò? Per me l’orrore sta nel fatto che nel dopoguerra sono stati impiccati dei chimici o degli ingegneri di alcune industrie con il pretesto che essi dovevano ben sapere che lo Zyklon era servito a uccidere degli uomini!
Per quanto concerne Sobibor e Treblinka, raccomando vivamente la lettura del libro citato dal professor Collotti. L’autore è Gitta Sereny Honeyman, e si intitola: Into That Darkness (editore André Deutsch, Londra 1974; in francese Au fond des ténèbres, Denoël, Parigi 1975). Questa giornalista, di origine ungherese, ha intervistato Franz Stangl, ex-comandante dei due campi. Gli incontri hanno avuto luogo nella prigione di Düsseldorf, dall’aprile al giugno 1971 e sono durati complessivamente 70 ore. Il risultato è di una chiarezza abbacinante: nonostante le convinzioni sterminazionistiche della giornalista, risulta che in questi due campi non è potuta esistere la minima camera a gas. Rimando i lettori di Storia a questo libro molto curioso.
Vengo ora al «serpente di mare» della documentazione sterminazionistica, e voglio parlare del famoso «Protocollo di Wannsee». Non esiste un «Protocollo di Wannsee»! In realtà c’è un testo che si presenta come un processo verbale di una riunione tenutasi il 20 gennaio 1942 in un edificio molto ufficiale di Berlino, al n. 56-58 del Viale lago di Wannsee. Ciò che stupisce è che questo testo, sul quale si cerca di fondare la teoria sterminazionistica, può essere descritto cosi: testo dattilografato da autore anonimo, su carta ordinaria, senza indicazione né di luogo né di data né di provenienza; non c’è la minima firma, la minima intestazione, il minimo riferimento né di provenienza né di destinazione; non è indicato con quale testo o gruppo di testi questo processo verbale deve essere messo in relazione. In breve, chiunque avrebbe potuto scrivere questo testo e timbrarlo: «Segreto». Io dico che nessun tribunale accetterebbe di prendere in considerazione un simile «processo verbale», nemmeno se si trattasse del processo verbale della riunione di un club di pescatori dilettanti. Dettaglio curioso: questo testo è stato scoperto solo circa un anno dopo la fine del «Grande Processo di Norimberga». Il suo contenuto è spesso stupefacente. Consiglio di leggerlo nella versione tedesca, poiché le traduzioni che conosco sono fuorvianti. Per esempio, per comprendere esattamente «entsprechend behandelt» («da trattare secondo come conviene»), ci si deve riferire a «bei Freilassung» («in caso di liberazione»). [Nota di RF: Si tratta di una traduzione alquanto ambigua e fuorviante. «Bei Freilassung» significa letteralmente «alla (loro) liberazione» o anche «al momento della (loro) liberazione». La traduzione inglese risulta: «Upon release».] Nella traduzione ufficiale di questo passaggio capitale, gli americani non hanno esitato a saltare fraudolentemente «bei Freilassung», che permette di comprendere che in questo caso «trattare (gli ebrei) secondo come conviene» significa non lasciarli liberi dei loro movimenti, sorvegliarli in un modo o in un altro, e non significa ucciderli.
Fin dal 1942 circolavano voci su un preteso sterminio degli ebrei. Con ragione le autorità governative Alleate considerarono queste voci come pessima propaganda di guerra. Alla fine del conflitto però queste chiacchiere ripresero forza quando, per esempio, le spaventose condizioni che si scoprirono nel campo di Bergen-Belsen, devastato dal tifo, sembrarono dar loro ragione. E sono proprio queste favole, nella forma in cui circolarono durante la guerra, che hanno lasciato qualche traccia scritta, ed è veramente interessante studiarle. Si vedano, per esempio, le pretese testimonianze degli ebrei polacchi fuggiti da Auschwitz (Doc. L-022 / US War Refugee Board, Washington, novembre 1944).
Il Vaticano, così bene informato sulla Polonia, anche in piena guerra, mai ha saputo che c’erano «genocidio» o «camere a gas». La Croce Rossa Internazionale tantomeno. Ciò che forse oggi mette in imbarazzo Vaticano e Croce Rossa è dover confessare che: «A dire il vero, noi avevamo forse sentito parlare di simili cose, ma abbiamo pensato, di fronte alla mediocre qualità delle informazioni e degli informatori, che si trattasse di pura e semplice intossicazione da propaganda di guerra». Se le autorità del Vaticano e della Croce Rossa hanno pensato così, allora, a mio modo di vedere, hanno ragionato in modo giusto, ma evidentemente riesce loro difficile proclamarlo oggi: sarebbe necessario un coraggio che non mi sembra proprio sia nella loro natura.
È il presidente della mia Università, e non il rettore dell’Accademia di Lione che ha avuto parole scorrette nei confronti miei e delle mie opinioni. Questo stesso presidente ha scritto che io ero un libero docente che non aveva pubblicato mai nulla, e ciò, parrebbe, per mia stessa ammissione. Ora, io ho al mio attivo più di una pubblicazione, e se un giorno ho scritto effettivamente in una lettera al presidente che non avevo pubblicato nulla, con ciò intendevo che all’epoca non avevo pubblicato nulla sulle «camere a gas». Ecco un esempio di prassi onesta! Lo segnalo solo per illustrare un punto che interessa il soggetto in questione: la menzogna si regge solo con la menzogna. Quando non si è in grado di trovare argomenti a favore di una tesi si ricorre a ogni sorta di calunniosi attacchi personali. Il rettore si è limitato di dichiarare alla stampa: «Il professor Faurisson è inattaccabile; non gli si può rimproverare alcuna colpa professionale». Ma che mi si difenda o mi si attacchi non ha molta importanza. Ciò che interessa è il tener fede al dovere della verità, costi quel che costi. La mia vita è diventata quasi impossibile, ma ha un senso, del quale mi accontento.
Per finire, dirò solamente qualche parola sulla «confessione» di Rudolf Höss, un frammento della quale, infedelmente tradotta dal tedesco, è proposta in italiano ai lettori di Storia Illustrata. Ho piena fiducia nel sottile spirito degli Italiani per scovare in quel testo quanto c’è di vago, di inconsistente e di assurdo.
Osservate bene le indicazioni di luogo. Dovete sapere che il misterioso «bunker» sarebbe stato una piccola fattoria di metri 7 x metri 15, probabilmente. La gassazione dei Russi sarebbe avvenuta nella piccola camera fredda di Auschwitz-I della quale ho dato i piani. Se nella vostra analisi avete bisogno di aiuto, leggete Rassinier, Butz e Stäglich a proposito di questa «confessione», pubblicata in tedesco solo undici anni dopo essere stata ottenuta dai galeotti polacco-stalinisti. Fate bene attenzione alle foto e alle loro assurdità. Guardate ciò che ho scritto sulle contingenze materiali di una gassazione con lo Zyklon B, e ditemi, molto francamente, se credete all’autenticità di tutte le «confessioni» che da sempre gli stalinisti ci garantiscono come autentiche. Infine, voi userete delle confessioni di Rajk o di Arthur London per fondare un’accusa qualsiasi che non fosse che contro i loro stessi accusatori?
Dobbiamo amare la verità. Mentire espone a crudeli disillusioni. Peraltro, talvolta mentire può anche nuocere alle persone che si cerca di difendere. Un’ebrea francese che risponde al nome di Simone Jacob, nata il 13 luglio 1927 a Nizza, è stata deportata da Drancy il 13 aprile 1944. Il suo convoglio è arrivato ad Auschwitz il 16 aprile 1944. La storia ufficiale (scritta dai Polacchi del Museo di Stato di Auschwitz insieme agli ebrei francesi del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Parigi) ci dice che, all’arrivo, 1365 persone di questo convoglio, comprese tutte le donne, quindi anche Simone Jacob, sono state gassate. In realtà, Simone Jacob e molte altre delle sue compagne sono fortunatamente sopravvissute alla guerra. Simone Jacob è diventata, per matrimonio, Simone Veil. Questa ex «gassata» è ora presidente del Parlamento europeo. Posso citare per nome migliaia di ebrei francesi che sono stati così facilmente definiti «gassati ad Auschwitz». Decisamente la storia della deportazione e quella della Seconda Guerra Mondiale hanno bisogno di essere riviste. Rivediamole.
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Le sei foto della risposta
Nessuna delle sei foto proposte con la risposta del professor Collotti [in Storia, N. 262, settembre 1979] apporta il minimo accenno di prova in favore della realtà delle pretese «camere a gas» e del preteso «genocidio». Per contro, esse presentano un considerevole vantaggio: permettono a un profano di vedere in qualche minuto come da più di trentacinque anni si abusa di noi. Osservate bene le sei foto per quello che sono. Poi, leggete bene le didascalie che le accompagnano. Misurate quindi l’enorme distanza che corre tra ciò che ciascuna delle foto mostra e ciascuna delle cose che si fa loro dire. In un terzo tempo, osservate i legami che si sviluppano da una didascalia all’altra, cioè da una menzogna all’altra. Infine, ditemi se Hollywood e i nostri maestri in mass media (i «mediocrati») procedono diversamente per imporci le loro idee e i loro gusti. Imparate, se già non sapete farlo, a ben osservare le foto dei vostri giornali. Se avete un magnetoscopio, guardatevi due volte un documentario televisivo: una prima volta senza l’accompagnamento del suono e una seconda volta con la voce del commentatore e la musica di fondo e i suoi silenzi.
1. Una stufa. La foto rappresenta una caldaia a carbone, due pale da carbone, del carbone, diversi tubi, due buchi nel muro o in tramezze. È vero che la caldaia è presentata senza il rivestimento esterno, e che molte brave persone possono chiedersi quale è questo strumento che non hanno mai visto in vita loro. La didascalia della foto è fantastica. Afferma che questa caldaia era utilizzata per riempire di «vapori mortali» la camera a gas del campo di concentramento tedesco di Struthof. Nessuna prova ci viene data dell’uso di questi vapori. In che modo questi vapori erano mortali? Erano vapori di che cosa? Ma, soprattutto, fate riferimento al numero di agosto di Storia, a pagina 20, alle due foto della pretesa «camera a gas» di Struthof, e, a pagina 21 per la mia didascalia in cui ricordo i termini della confessione di Josef Kramer. Io non ho fatto che riportare tra virgolette i termini così come sono ufficialmente riprodotti sul posto. Si parla di «una certa quantità di sali cianidrici», poi di «una certa quantità di acqua». Il tutto è versato attraverso un buco (quello che si vede nella foto) con «un imbuto a rubinetto»! Andate a visitare la «camera a gas» di Struthof. Non vi vedrete la caldaia né quei due buchi che nulla hanno a che fare con il buco di Kramer. Può darsi che ai primi inizi della leggenda delle «camere a gas» gli Alleati abbiano cercato di accreditare questa storia della caldaia a carbone con i suoi misteriosi «vapori mortali». In questo caso, è da molto che gli Americani hanno abbandonato questa versione della leggenda per un’altra appena meno assurda. Gli accusatori dei Tedeschi hanno peraltro talmente coscienza dell’inezia delle loro accuse che non un solo libro su Struthof, non una sola cartolina postale riproduce la «camera a gas» di Struthof. Tutto ciò che è stato fatto è di riprodurre in foto la «fattoria Indoux» (della quale la pretesa «camera a gas» è solo una piccolissima parte), dando come didascalia a questa fotografia: «La camera a gas di Struthof»!
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Nella pagina sopra: il bambino del ghetto. Non è conosciuta, penso, la provenienza di questa foto che ha fatto il giro del mondo e che è «il simbolo straziante della sofferenza ebrea e della bestialità nazista» (Jewish Chronicle, 11 agosto 1978, pg. 1). Le didascalie di questa foto non variano punto. Quasi tutte quelle che io conosco situano l’azione nel contesto del ghetto di Varsavia nel 1943 (vedere, per esempio, Oggi, 2 marzo 1979, p. 41, o L’Enfer Nazi, edizioni del Bois de Boulogne, Parigi 1979; iconografia e testi raccolti da Dino De Rugeriis, © Ciarrapico Editore, viale Parioli 3, Roma, pg. 71). Il lettore può arrivare a concludere (quando non venga detto espressamente) che questo bambino e gli ebrei che lo circondano stanno per essere condotti in un campo per essere sterminati.
La seconda foto sotto la prima, rappresenta lo stesso bambino fotografato in Unione Sovietica qualche anno dopo (provenienza: Jewish Chronicle, ibidem).
Commento. Basta riflettere un po’ per rendersi conto che questa scena non ha disgraziatamente nulla di originale. Quanti civili, durante la Seconda Guerra Mondiale, bimbi compresi, non hanno dovuto alzare così le mani davanti a soldati o a poliziotti in armi? Il fatto è che, sempre secondo il Jewish Chronicle dell’11 agosto 1978, pp. 1 e 2, questo bambino, come pure suo padre e sua madre, oggi vivono alla periferia di Londra. Sono ricchissimi. La scena della fotografia sarebbe avvenuta nell’estate del 1941. In occasione dell’arrivo a Varsavia di una importantissima personalità tedesca, l’esercito aveva proceduto a operazioni di polizia e, nel corso di una di queste operazioni, questo gruppo di ebrei era stato sorpreso con della merce. «Ero un ladro di prima forza, ed è solo rubando che potevo sopravvivere», dichiarò l’uomo al giornalista Joseph Finklestone. I Tedeschi avevano condotto il ragazzo a un posto di polizia dove sua madre, preoccupata della sua sorte, era andata a reclamarlo, e i Tedeschi lo avevano rilasciato. Le prove fornite dall’uomo e dalla sua famiglia su questa identità tra «il ragazzo del ghetto» e il ricchissimo londinese sembrano assai convincenti. L’uomo desidera conservare l’anonimato. Dice che ha sempre temuto il momento in cui avrebbe dovuto rivelare la verità. Se lo ha fatto è solo perché una donna aveva abusivamente dichiarato al Jewish Chronicle di averlo conosciuto, e che il bambino si chiamava Arthur Domb. (In realtà, se devo prestar fede a Le Soir di Bruxelles del 4 agosto 1978, questa donna di Tel-Aviv, la signora Beniamini, nata Esther Domb, avrebbe dato al ragazzo il nome di Arthur Chimiontek). Comunque, l’uomo, che ha oggi 44 anni, si era ben guardato dal reagire nel 1961, al momento di un’operazione politico-commerciale condotta in occasione e contemporaneamente al «processo Eichmann» e al lancio del film intitolato Operation Eichmann, in cui il ruolo di «ghetto-boy» era stato incarnato dal piccolo Jim Baird. Ho sotto gli occhi la copia di un volantino pubblicitario che riproduce la foto del «ghetto-boy». Titolo: Questo piccolo ebreo di 14 anni ha visto tutto. Sottotitolo: «Oggi, superstite dei campi di concentramento, ma già vecchio a 32 anni, testimonierà contro i carnefici della sua gente». Testo: «Questo pietoso soldo di cacio che alza le mani sotto la minaccia di un fucile nazista è una delle vittime di Adolf Eichmann, il boia degli ebrei. Si chiama David e ha 14 anni. Era rinchiuso in un campo di concentramento. Classificato «lavoratore necessario», vide i suoi genitori e la sua sorellina spinti come bestie in cabine sigillate, e asfissiati. Fu costretto a trasportare i cadaveri nelle fosse dove venivano ammucchiati. Poi, dovette distruggerli, quando i responsabili SS, per cancellare la prova dei loro odiosi crimini, decisero di cremare tutti gli ebrei, vivi o morti. Sfuggito ai campi della morte, il piccolo David è cresciuto, è un vecchio di 32 anni, – ed è anche uno di coloro che hanno perseguito Eichmann fino a Buenos Aires. Al processo di Tel-Aviv, David sarà testimonio…».
Per quanto mi riguarda, constato che intorno a questa foto si sono sviluppate molte affabulazioni. Se veramente si volesse persistere a farne un simbolo del «genocidio», ci si esporrebbe a sentirsi replicare che questa foto è indubbiamente un simbolo, ma il simbolo dell’impostura del «genocidio».
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2. Solo per ebrei. La foto rappresenta la scritta: «Solo per gli ebrei», in tedesco e in polacco, appesa con una cordicella dietro il vetro di quello che sembra essere un tramway; si scorgono dei viaggiatori, uno di questi porta un bracciale sul quale si vede la stella di David; un altro porta, verosimilmente, un identico bracciale.
In quale modo queste foto provano l’esistenza del «genocidio»? Alla stessa epoca i nostri liberatori americani avevano autobus, panche, toilettes, ghetti solo «For Coloured». E non voglio parlare dei nostri alleati inglesi o sudafricani. Ripeto: i Tedeschi consideravano gli ebrei civili come soggetti di una nazione belligerante ostile e, per ammissione stessa degli ebrei, i Tedeschi potevano con fondamento considerarli in tale modo. Gli ebrei non perdevano occasione di ripetere che, spesso anche durante la loro infanzia, si comportavano da nemici dichiarati di Hitler (il che era del tutto normale); dicevano che essi sono stati la punta della resistenza, e anche della resistenza armata. Le autorità tedesche, preoccupate della sicurezza dei soldati tedeschi (si vedano i numerosi attentati nei trasporti pubblici), proibivano loro di salire negli scompartimenti riservati agli ebrei. È il senso della scritta «Nur für Juden», «Solo per ebrei». Va da sé che questa misura era nei fatti vessatoria per gli ebrei e non per i Tedeschi. Si potrebbero fare cento esempi di misure simili applicate dagli Alleati nei luoghi dei vinti della Seconda Guerra Mondiale.
3. Selezione di deportati. Ciò che mi colpisce di questa foto, come di tutte le numerose foto che abbiamo sull’arrivo dei deportati ad Auschwitz, è il comportamento degli ufficiali, dei soldati e dei medici tedeschi. Non si ha l’impressione di essere in presenza di isterici in elmetto, che maneggiavano il nerbo, ma di uomini calmi che ricevono i convogli e dividono coloro che arrivano in diversi gruppi.
La didascalia parla della «tragica sorte» che attende questi prigionieri. La foto proposta non ci predice certamente l’avvenire di questi prigionieri. E, da parte mia, io aggiungo che non esiste nessun foto né documento che provino che la selezione degli arrivati si facesse ad Auschwitz in modo diverso da quanto avveniva in tutti gli altri campi tedeschi, compresi quelli in cui il professor Collotti e gli sterminazionisti riconoscono che non c’erano «camere a gas». Gli uomini venivano messi da una parte, le donne e i bambini dall’altra. I sessi non coabitavano, tranne che nel «Familienlager» di Birkenau. C’erano poi, in certi convogli, coloro che arrivavano in «sanitorio». È sempre una cosa pietosa e scandalosa vedere della gente arrivare così, come bestiame, e farsi trattare come bestiame. È una cosa corrente in tempo di guerra. Ma quando io paragono la sorte dei deportati di Auschwitz a quella delle minoranze tedesche dell’Est deportate dai Sovietici, dai Polacchi o dai Cechi, io dico che nessuno in questo campo ha lezioni da dare a chicchessia.
4. Ebrei polacchi condotti nei ghetti. In basso della foto è scritto che la scena si sarebbe svolta nel 1939/1940; i Tedeschi espellono dalla regione della Warthe verso il «Governatorato Generale di Polonia» la minoranza polacca. Una scena mille volte ripetutasi in conseguenza di tutte le guerre; dramma dei fuggiaschi, dei rifugiati di tutti gli angoli della terra. Scommettiamo che molti dei componenti della minoranza cinese nel Vietnam vorrebbero poter abbandonare il Paese nel modo in cui vediamo questi Polacchi abbandonare la regione di Francoforte sull’Oder. Niente permette di scrivere: «Vi morranno di fame, finiranno nei campi di sterminio, o, come a Varsavia, saranno uccisi nella rivolta dell’autunno 1944». Ma se mi si parla della rivolta del ghetto, che ha avuto luogo nella primavera del 1943, faccio notare che qualsiasi esercito del mondo avrebbe tentato di soffocare un’insurrezione di questo genere, soprattutto che questa avvenne alle spalle della linea del fuoco.
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5. Cadaveri in parte carbonizzati. Qui vedo uno spettacolo orribile ma non vedo crimine. Questi cadaveri sono stati chiaramente estratti da un carnaio. Il loro stato è quello delle persone morte in seguito a epidemia di tifo. I cadaveri estratti dal carnaio di Katyn si parla sempre di questo, ma i Sovietici sembrano averne ben altri al loro attivo erano di Polacchi assassinati dai nostri alleati [alleati dei Francesi ndr] sovietici. Perché, quando si tratta di cadaveri o di persone espulse dai Tedeschi si deve sempre dire che, parzialmente o totalmente, si tratta di ebrei mentre nulla permette di precisarlo? Si finisce per far credere che solo gli ebrei hanno veramente sofferto durante la guerra o, quanto meno, essi avrebbero sofferto incommisurabilmente più degli altri. Non ho fatto studi particolari su questo problema, ma sono disposto volentieri a credere (naturalmente è da dimostrare) che i popoli che più hanno sofferto in Europa sono stati innanzitutto i Tedeschi (comprese le minoranze tedesche dell’Est), i Polacchi e i Russi. Dopo la guerra proprio gli abitanti di Varsavia sono rimasti stupiti dal numero di ebrei ritornati in città (testimonianza di Marek Halter alla radio francese; Halter si lamentava perché di fronte all’enorme sfilata di ebrei gli abitanti di Varsavia ripetevano: «Dei topi! Dei topi! Sono ritornati tutti!»). Non bisognerebbe mai, in questo come in altri casi, esagerare né in un senso né nell’altro, ed è altrettanto detestabile sia commerciare sofferenze inventate sia minimizzare, per ragioni più o meno politiche, sofferenze che sono state ben più che reali.
6. Un forno crematorio. Vedo un soldato con elmetto americano chino sui resti calcinati nella bocca di un forno crematorio. Con quale diritto viene detto che si tratta di un forno di Auschwitz? Sono i Sovietici che sono entrati da vincitori ad Auschwitz il 27 gennaio 1945. E qui non c’erano più forni crematori, come ci dicono i più che ufficiali Cahiers d’Auschwitz. I Tedeschi li avrebbero smantellati o fatti saltare prima di partire. Ma, soprattutto, che male c’è a cremare i morti invece di inumarli? Non si cerca forse in questo caso di fare disonestamente leva sulla sensibilità dei lettori che preferiscono l’inumazione alla cremazione? Non ritroviamo forse qui quella mitologia del fuoco e delle fiamme che già svolge il suo ruolo nella foto n. 1 con la caldaia a carbone resa più inquietante dell’aver messo a nudo il sistema di riscaldamento? Questa mitologia serve bene l’idea che Hitler era Satana e che «l’inferno nazista» era pieno di pali, di graticole, di forni, di «vapori mortali» e… di «camere a gas». Di qui derivano i moderni processi per stregoneria fatti ancora oggi ai vinti.
Traduzione di Antonio Pitamitz