Prefazione di Un Cas d’insoumission (Georges Theil)
Il revisionismo storico è stata la grande avventura intellettuale della fine del XX° secolo. All’alba del XXI° secolo, l’avventura continua, sempre altrettanto perigliosa.
Ma che cosa si sa del revisionismo? Di che stoffa sono fatti questi riottosi che, in Francia o all’estero, persistono nello sfidare le leggi scritte e non scritte? Sono braccati, sono messi alla berlina ed accade che si brucino i loro libri. Nei mezzi di comunicazione, li si copre di oltraggi e non li si autorizza a presentare le loro argomentazioni o la loro difesa.
A poco a poco, questi ribelli, questi refrattari, questi refuznik (gli ebrei sovietici che chiedevano di emigrare – NdT) si sono visti costretti alla clandestinità, anche su internet dove da un po’ di tempo a questa parte si dà loro la caccia.
Da allora, come li potrebbe conoscere il grande pubblico?
A questa domanda il caso di Georges Theil offre un elemento di risposta.
Nato nel 1940, Georges Theil compie dei solidi studi in provincia. Egli si costruisce persino la reputazione di superdotato nelle scienze e nelle lettere. Egli vede aprirsi davanti a sé un avvenire promettente.
Tuttavia, tra i 13 ed i 22 anni, tragici eventi sono venuti a segnare con la loro cupa impronta l’esistenza dell’adolescente e del giovane uomo. Tardivamente, gli è stato rivelato che nell’aprile 1944 suo padre era stato ucciso in circostanze oscure o da Georgiani in divisa tedesca o da miliziani francesi; questo padre, ingegnere di professione, era stato trovato in possesso di un’arma. Già, all’epoca della Prima guerra mondiale, il padre di questo padre aveva, nel 1916, trovato una tragica morte nel Tonchino; egli formava sul posto dei lavoratori locali per inviarli in Francia “ad uccidere i Crucchi” nel quadro della rivincita. Altri lutti colpiscono una famiglia che sembra quasi segnata dal destino. La reazione del giovane è inaspettata. Invece di incriminare, come vuole una certa iconografia convenzionale, gli “Unni” o i “Nazisti” per la loro supposta responsabilità nell’aver scatenato le due guerre mondiali, egli s’interrogherà sul mistero storico che fa sì che, dal 1870 al 1945, nello spazio di tre generazioni, Tedeschi e Francesi si siano uccisi tra loro in questo modo.
In quanto Francese, è ai Francesi che egli pone le sue domande in proposito. Orfano di un padre che, era lui stesso orfano di guerra, egli chiede: “Chi, in Francia, ha potuto volere ciò?” o ancora “Perché sono stati mandati a morire tanti Francesi per uccidere dei Tedeschi?” (Al contrario, un giovane Tedesco potrebbe porre ai suoi compatrioti delle domande equivalenti, se non che, nel caso della Seconda guerra mondiale, nessun Tedesco, compreso Adolf Hitler, aveva auspicato una guerra contro la Francia poiché è la Francia che ha creduto di dover entrare in guerra contro di lui).
Nel giovane Georges si susseguono altre domande ed in particolare questa: “Perché, dopo l’armistizio dell’8 maggio 1945, è stato necessario disonorare i Tedeschi?” Si può, infatti, chiedersi con quale diritto i macellai del campo dei vincitori hanno giudicato e condannato i vinti in un paese che essi avevano ridotto in cenere e di cui milioni di abitanti, all’Est, erano costretti ad una terribile deportazione, in circostanze ben peggiori di quelle che avevano conosciuto gli ebrei.
In fatto di cinismo e di fariseismo, non c’è niente di meglio del processo di Norimberga (1945-1946). Il vincitore vi giudica il vinto. Egli “non è vincolato dalle regole tecniche relative all’amministrazione delle prove”. Egli non esige che “sia portata la prova dei fatti di notorietà pubblica” (sic). Ad occhi chiusi, egli riconosce valore di prova autentica a migliaia di rapporti redatti da “commissioni di crimini di guerra” francesi, britanniche, americane, sovietiche, jugoslave, polacche, cecoslovacche… ed è così che, per portare solo un esempio, che i rapporti della polizia politica sovietica acquisiscono valore di “prove autentiche” e non possono essere oggetto di contestazione. D’altronde, quasi niente può essere contestato in fatto d’accusa, dal momento che l’accusato appartiene ad un’organizzazione “criminale”; tutt’al più, l’individuo che fa capo ad una tale organizzazione avrà l’autorizzazione a sostenere a sua difesa che, personalmente, egli non ha mai avuto alcun ruolo in tale crimine.
È ciò che spiega che, dal 1945 ai giorni nostri, si siano visti tanti Tedeschi o tanti “collaborazionisti” accettare o sembrare accettare l’esistenza del crimine ed al tempo stesso contestare una partecipazione personale a tale crimine. Non c’era – e non c’è lì – alcuna ipocrisia né alcuna vigliaccheria da parte degli accusati ma la semplice sottomissione forzata all’articolo 10 dello Statuto del tribunale miliare internazionale. Non si aveva – e non si ha – il diritto di contestare l’esistenza ed il funzionamento di camere a gas omicide a Auschwitz ma si aveva – e si ha – il diritto di dire: “Personalmente, non ne ho viste o non ho partecipato a nessuna gassazione”. Tutti gli avvocati degli accusati hanno dovuto seguire questa calamitosa linea di difesa. Come nei processi per stregoneria, essi hanno dovuto avallare l’esistenza del Maligno, la realtà dei sabba, la veridicità d’ogni sorta di orrori satanici pur cercando di far credere che i loro assistiti, che si erano comunque trovati sul posto o erano informati, non vi avevano personalmente preso parte alcuna!
Gli articoli 10, 19 e 21 dello Statuto che permettono queste ignominie dovrebbero essere riprodotti a caratteri di sangue nel Grande Libro della storia dei processi truccati, delle messe in scena giudiziarie, delle parodie di giustizia.
Ma forse l’articolo 13 eccede in materia gli articoli 10, 19 e 21. È chiaro come la mannaia della ghigliottina. Citiamolo:
“Il tribunale stabilirà le regole della sua procedura. Tali regole non dovranno in nessun caso essere incompatibili con le disposizioni del presente Statuto.”
In linguaggio corrente: i giudici della sede redigeranno il proprio codice di procedura penale! Ed essi potranno farlo in maniera quasi arbitraria poiché, tanto, le disposizioni dello Statuto si riducono a trenta articoli che assicurano all’accusa la più ampia latitudine ed alla difesa il minimo dei diritti.
Il tribunale di Norimberga non ha provato niente. Esso ha affermato.
Il grande pubblico lo ignora ma gli specialisti lo sanno: tutti i processi voluti ed ottenuti da più di mezzo secolo dalle organizzazioni ebraiche sia contro dei Tedeschi sia contro dei non Tedeschi che sono accusati di aver collaborato alla persecuzione degli ebrei sono ricalcate sul processo di Norimberga. Ancora al processo di Maurice Papon si è visto recitare il copione dell’articolo 10: tutti hanno supposto, senza il minimo straccio di prova, che il III° Reich aveva seguito una politica di sterminio fisico degli ebrei; nessuno ha contestato, protestato, reclamato prove. Gli avvocati dell’accusato, così come il loro assistito, hanno curvato la schiena. Tutti sapevano che con l’esigere una prova, una sola prova, si sarebbe scatenata una tempesta su scala mondiale.
Oggi, in Francia, la versione kasher della Seconda guerra mondiale è ufficialmente imposta a tutti da una disposizione legislativa che data del 13 luglio 1990 e impropriamente chiamata “legge Gayssot” mentre si tratta di una legge preparata ed ottenuta da Laurent Fabius. Sin dalla primavera 1986, il rabbino capo René-Samuel Sirat, fiancheggiato da Pierre Vidal-Naquet e da altre personalità ebraiche, aveva chiesto l’istituzione di una legge speciale al fine d’impedire la contestazione delle conclusioni del processo di Norimberga in materia di “crimini contro l’umanità”, cioè, per parlar chiaro, di “crimini contro gli ebrei”. Laurent Fabius è stato portavoce e cinghia di trasmissione di questa richiesta ebraica.
Molti intellettuali raccomandano la lotta contro la menzogna istituzionalizzata e contro la forza ingiusta della legge ma pochi si azzardano a condurla.
Georges Theil, per parte sua, ha scelto il rischio. Egli l’ha fatto decidendo di rivelare qui come e perché egli si è lanciato nell’avventura revisionista.
10 aprile 2002