Perizia resa all’avvocato Damien Viguier, legale di Alain Soral, nel caso del manifesto intitolato “Pornographie mémorielle”
Con la Sua lettera del 7 settembre Lei mi ha richiesto, come esperto, nell’ambito del caso che vede il pubblico ministero opposto al Suo cliente, il Signor Alain BONNET [alias Alain SORAL], davanti al tribunale di grande istanza di Parigi, con lo scopo di consegnarLe un’analisi del disegno incriminato.
“Pornografia memoriale”: l’espressione stigmatizza l’indecenza degli scritti, dei racconti, delle false testimonianze di cui alcuni osano fare commercio sfruttando e volgarizzando le realtà dell’esperienza ebraica della Seconda Guerra mondiale. Questo spudorato sfruttamento delle reali prove è, sì, principalmente il risultato d’individui o organizzazioni della comunità ebraica, ma i goyim (o gentili), anch’essi, vi hanno la loro parte di responsabilità. Il fenomeno ha preso le dimensioni di un commercio o di un’industria che, negli Stati Uniti, sono chiamati, il primo, “Shoa[h] Business” e, l’altro, “Holocaust Industry”.
La caricatura qui sopra ci mostra una prostituta in calze a rete che ha, nella mano destra, il reggiseno appena tolto e, nella mano sinistra, le monete che ha appena racimolato. Su ognuno dei seni nudi vi è disegnata una stella gialla. Sorride con soddisfazione. Sullo sfondo appare il cancello di Auschwitz-Birkenau nel quale erano inghiottiti i convogli dei deportati. La creatura, lei, danza sui binari. È felice. Il suo modo di servire la memoria della sofferenza ebraica ai tempi di Adolf Hitler è perfettamente osceno e le permette di arricchirsi. Lei serve una sola “Memoria” riscritta in modo ripugnante e per fini sordidi. Con essa non siamo più nella creazione storica o storiografica ma nell’invenzione pornografica. La nuova espressione di “pornografia memoriale” si addice a questa innovazione della propaganda e della pubblicità moderne che, lo si vede ogni giorno, non si fa nessuno scrupolo.
Come questa prostituta, non mancano autori che si lanciano in un’attività così degradante e fruttuosa come quella della prostituzione. Invece di rispettare la memoria di chi ha sofferto o di chi è morto per la sua appartenenza a una fede o a una comunità etnica, traggono cinicamente profitto dalla Memoria ebraica procedendo secondo i metodi dell’adescamento. Invece di servire la precisione storica, esagerano i fatti e le cifre quando non li inventano di sana pianta. Ostentano le sofferenze dei morti. Più rincarano la dose, più riempiono le loro tasche. Accumulano denaro, onori e onorificenze.
A questo proposito, Auschwitz, che era al centro di un culto sconvolgente per i cuori sinceri, si è trasformato in luogo simbolo di attrazioni malsane, una Disneyland dell’Orrore. Milioni di turisti vi visitano, nel campo di Auschwitz-I, un crematorio dotato di una pretesa camera a gas di esecuzione ma, in realtà, “Tutto vi è falso” e in buona parte si tratta di “falsificazioni” (Éric Conan, La Mémoire du mal, L’Express, 19-25 gennaio 1995, p. 68).
Può costare caro alle persone oneste e ai veri storici mettere in guardia contro questo commercio degradante, contro questa perversione, contro questa Memoria snaturata e contro questa “pornografia memoriale”. Nella persona di Ben Zion Dinur, nato Dinaburg, lo Stato di Israele aveva durante gli anni ’50 uno storico così prestigioso che nel 1953 gli fu affidato l’incarico di fondare Yad Vashem (un memoriale e un istituto di ricerca dell’“Olocausto”, situato a Gerusalemme). Ora, sei anni dopo, lo sfortunato si vedeva costretto alle dimissioni. Il suo crimine? Nella preoccupazione di salvaguardare la Storia dagli abusi della Memoria, aveva raccomandato uno studio severamente critico delle testimonianze rese dai “sopravvissuti”. La clamorosa protesta suscitata in alcuni ambienti polacco-ebraici di Israele lo aveva spinto a lasciare Yad Vashem.
Nel 1950 il professore Dinur non era il solo ebreo a prendersela con l’accozzaglia di false testimonianze dei “sopravvissuti”. All’epoca, l’ebreo americano Samuel Gringauz, un ex abitante del ghetto di Kaunas (Lituania) durante la Seconda Guerra mondiale, denunciava tra alcuni dei suoi correligionari quello che chiamava “il complesso iperstorico” (the hyperhistorical complex); scriveva in proposito:
Il complesso iperstorico può descriversi come giudeocentrico, logocentrico e egocentrico. Concentra il significato storico su problemi ebraici o eventi locali, e ciò sotto l’aspetto di un’esperienza personale. È la ragione per cui la maggior parte dei ricordi e dei rapporti sono pieni di verbosità assurda, di esagerazione di scribacchino, effetti scenici, una presuntuosa inflazione dell’ego, una filosofia da dillettante [sic], una goffa ricerca di lirismo, voci non verificate, distorsioni, attacchi di parte ed apologie. (“Some methodological problems in the study of the ghetto”, Jewish Social Studies / A Quarterly Journal Devoted to Contemporary and Historical Aspects of Jewish Life, Vol. XII, Edited for The Conference on Jewish Relations, New York 1950, p. 65.)
Nel 1954 Germaine Tillion, ex deportata, ha denunciato la “menzogna gratuita” a proposito dei campi di concentramento tedeschi. Non ha temuto di scrivere:
Queste persone [che mentono gratuitamente] sono, in realtà, molto più numerose di ciò che si pensa in generale, e un ambito come quello del mondo dei campi di concentramento – ben fatto, purtroppo, per stimolare le immaginazioni sadomasochiste – ha offerto loro un campo d’azione eccezionale. Abbiamo conosciuto [è G. Tillion che continua a parlare qui] molti deficienti mentali, per metà truffatori e per metà pazzi, che sfruttano una deportazione immaginaria; ne abbiamo conosciuti altri – deportati autentici – la cui mente malata si è sforzata di superare ancora le mostruosità che avevano viste o di cui qualcuno aveva parlato loro, e che ci sono riusciti. Ci sono addirittura stati degli editori per stampare alcune di quelle elucubrazioni, e delle raccolte più o meno ufficiali per utilizzarli, ma editori e i compilatori non sono assolutamente scusabili, perché l’inchiesta più elementare sarebbe stata sufficiente per svelare l’impostura. (“Réflexions sur l’étude de la déportation”, Revue d’histoire de la Deuxième Guerre mondiale, numero speciale su “Le Système concentrationnaire allemand (1940-1944)”, luglio-settembre 1954, p. 18, nota 2.)
Nel 1968 Olga Wormser-Migot, autrice di riferimento conosciuta per la sua storia sul sistema concentrazionario nazista notava, anche nelle testimonianze rese sotto giuramento durante i processi detti di “criminali di guerra”:
[…] il primato accordato ai fatti spettacolari – e soprattutto l’esagerazione: eccesso nei racconti d’orrore o nelle possibilità del sabotaggio e della resistenza, ingigantimento del numero reale dei deportati e delle vittime e, in particolare nelle testimonianze femminili, raffinatezza nel sadismo a sfondo sessuale (carattere molto più sensibile nelle testimonianze degli anni ’45-’47 che in quelle posteriori). La rivelazione dell’orrore dei campi aveva scatenato una tale bolgia di racconti di crudeltà che la maggior parte dei testimoni, non avendo subito quelle sevizie o non essendone stati spettatori, temeva inconsciamente di non essere considerata come una vera deportata se non vi avesse fatto allusione. (Essai sur les sources de l’histoire concentrationnaire nazie, tesi complementare dattilografata, 1968, p. 322)
Più numerose di quanto si pensi in genere sono state le denunce di diverse forme della “pornografia memoriale”. Nel 1986, anarchici e altri rappresentanti dell’“ultra-sinistra” in Francia hanno scritto:
La letteratura concentrazionista triviale dei Bernadac, Steiner, Gray e compagnia che fa appello ai più bassi istinti per vendersi ha fatto molto male alla ricerca storica. (Collettivo, Libertaires et “Ultra-Gauche” contre le négationnisme, Reflex, 1996, 111 p.)
Nel 1999 lo storico Tim Cole ha pubblicato Selling the Holocaust, from Auschwitz to Schindler. How History Is Bought, Packaged, And Sold [Olocausto in vendita, da Auschwitz a Schindler. Come la storia viene comprata, imballata et venduta], Routledge, New York 2000, XX-214 p. Nel 2000, Norman Finkelstein mette a segno un gran colpo con la pubblicazione di The Holocaust Industry. Reflections on the Exploitation of Jewish Suffering (Verso Books, Londra-New York, 150 p.). Nel 2002 apparirà la traduzione italiana per le edizioni Rizzoli con il titolo di L’industria dell’Olocausto: Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei. I suoi compatrioti e correligionari Noam Chomsky et Raul Hilberg (il più prestigioso storico in materia) esprimeranno la loro ammirazione per quest’opera. È interessante notare che, secondo Wikipedia, “In Francia solamente, il libro sarà oggetto di un processo per ‘diffamazione razziale’ e ‘incitamento all’odio razziale’ intentato da ‘Avvocati senza frontiere’, e che Norman Finkelstein e il suo editore vinceranno in prima istanza e in appello [corte d’appello di Parigi, 4 maggio 2006]”.
Non è un ebreo ma un prete cattolico romano che si spingerà forse oltre nelle pratiche che denunciava N. Finkelstein: Padre Patrick Desbois, l’autore di Porteur de mémoires / Sur les traces de la Shoah par balles, Michel Lafon, Neuilly-sur-Seine 2007, 335 p. (edizione italiana: Fucilateli tutti!: la prima fase della Shoah raccontata dai testimoni, Marsilio, Venezia 2009). Per alcuni anni è stato in Francia il beniamino dei media sino al giorno in cui storici francesi hanno elaborato alcuni aggiornamenti che sembrano essere stati fatali al buon Padre, che è scomparso dai nostri schermi.
Padre Desbois si era detto sicuro di aver scoperto, principalmente in Ucraina, circa 800 carnai contenenti 1.500.000 cadaveri di ebrei fucilati dai Tedeschi. Sceglieva un villaggio, invitando gli abitanti a farsi fotografare davanti ad un angolo di campagna all’apparenza inoffensivo, poi sciorinava un discorso davanti ad un prato o a un boschetto e rivelava o faceva rivelare da brave persone dagli occhi riempiti di lacrime che lì giacevano molti cadaveri, ma mai si procedeva alla riesumazione né si mostrava un carnaio, per la “buona” ragione che un rabbino inglese aveva fatto sapere che quei cadaveri erano quelli dei santi da non disturbare per nessuna ragione nel loro ultimo sonno. Padre Desbois aveva persino scoperto che durante la guerra i Tedeschi, desiderosi di discrezione, comunicavano a Berlino il risultato delle loro prodezze omicide solo sotto forma di annunci metereologici nei quali “il numero di nuvole indicava il numero di fosse aperte, e dell’intensità della pioggia il numero dei corpi che avevano bruciati” (p. 227)! Prima ci aveva spiegato perché aveva incaricato un uomo, dotato di un rilevatore di metalli, di scoprire i bossoli tedeschi: tanti bossoli rilevati, altrettanti ebrei fucilati! Ma c’è di meglio: Padre Desbois aveva scoperto una nuova faccia della Shoah, “la Shoah per soffocamento”. Questo soffocamento si praticava con dei piumoni o cuscini (p. 304-307)!
In breve, il nostro buon Padre si era fatto emulo dell’Abbate Georges Hénocque (1870-1959), ex allievo della scuola speciale militare di Saint-Cyr, cappellano militare, resistente, che ha lasciato il suo nome a una piazza del 13° arrondissement di Parigi. Internato a Buchenwald, aveva voluto, una notte, vedere con i suoi propri occhi la camera a gas d’esecuzione. “A carponi” (sic) era scivolato dove era situata. Ce l’aveva descritta con i suoi “quattro bottoni, messi uno sopra all’altro: uno rosso, uno giallo, uno verde, uno bianco”. E non si era mostrato avaro con altre precisioni imprecise (Les Antres de la Bête. Fresnes, Buchenwald, Dachau, G. Durassié et Cie, Parigi 1947, p. 112-119). La sfortuna vuole che, qualche anno più tardi, nel 1960, gli storici scoprirono che quel campo come anche numerosi altri non aveva mai avuto camere a gas d’esecuzione.
Conclusioni
Le così tante elucubrazioni che, settant’anni dopo la guerra, continuano a proliferare sono intollerabili. Invece di citare in giustizia coloro che ricercano la precisione, converrebbe sostenerli nella loro denuncia della “pornografia memoriale”. Per riprendere qui un’espressione alla moda, sono “whistle blowers” o “segnalanti”. È forse ciò che confermerebbe la lettura della sentenza sopracitata.
15 settembre 2015