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Per Hossein Amiri

Non ho ancora incontrato Hossein Amiri, che lavora presso l’agenzia di stampa iraniana Mehr News, e non ho letto il manoscritto del libro che sta per pubblicare, mi ha detto, sull’”Olocausto” e sul revisionismo da parte del Centre for Palestine and Middle East Records and Strategic Studies. Tuttavia, ho potuto mantenere una corrispondenza con lui che mi ha dato l’impressione che egli si batta effettivamente a favore del revisionismo storico e come tale credo che meriti il sostegno dei revisionisti di tutto il mondo. Nella lotta che conduciamo contro il mito del cosiddetto “Olocausto” degli ebrei, i ricercatori e gli attivisti provenienti dall’Iran o dai paesi arabi sono ancora così pochi che dobbiamo accogliere con favore la comparsa tra i revisionisti di un uomo come H. Amiri.

Il mito dell’“Olocausto” o della “Shoah” è alla base della creazione, nel 1947-1948, dello Stato di Israele ed è diventato, nel tempo, la spada e lo scudo di questo Stato. Per combattere questo mito e i suoi misfatti, il revisionismo storico si presenta come l’unico ricorso possibile. In quanto tale, il revisionismo è l’arma atomica dei poveri e dei deboli contro la Grande Bugia dei ricchi e dei potenti di questo mondo. Senza uccidere nessuno, il revisionismo potrebbe rovinare, fino alle fondamenta, una delle menzogne storiche più pericolose di tutti i tempi, quella del presunto genocidio degli ebrei (ai milioni di “sopravvissuti”!) e quella delle presunte camere a gas hitleriane (che, in realtà, non esistevano né ad Auschwitz né altrove!).

A partire dal 1945, proprio alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le potenze occidentali videro accelerarsi la scomparsa delle loro colonie. Tuttavia, è proprio in questo periodo che, per effetto di un paradosso, si assiste alla creazione e al rafforzamento, in piena decolonizzazione generalizzata, di due fenomeni aberranti, entrambi verificatisi nel 1948: in Sud Africa, l’istituzione dell’apartheid e, in Medio Oriente, la creazione, attraverso la violenza, di un’entità territoriale, razzista e colonialista, che si autodefiniva “Stato ebraico” e che si dotò di un “Esercito ebraico”.

In Sud Africa, l’apartheid ha provocato un tale movimento di rifiuto da parte di quella che possiamo chiamare la comunità internazionale che ha finito per scomparire. Ma lo Stato d’Israele si è mantenuto in terra di Palestina ed è, oggi più che mai, finanziato e armato dalle grandi potenze occidentali, a cominciare dalla Germania e gli Stati Uniti. È addirittura diventato una potenza nucleare.

L’anomalia che costituisce questa brutale colonizzazione della Palestina nel mezzo di un movimento di decolonizzazione in tutto il resto del globo è facilmente spiegabile. Nel 1945, ingannati dalla macchina della propaganda ebraica e sionista, i popoli del mondo occidentale erano convinti che, durante la Seconda Guerra Mondiale, Hitler avesse tentato di sterminare gli ebrei, e ciò in modo particolarmente atroce e sistematico. Sembrava che Hitler fosse riuscito a far uccidere sei milioni di ebrei innocenti, in particolare in mattatoi chimici chiamati “camere a gas”. Nel 1947 il ragionamento dei membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, creata nel 1945, era quindi più o meno il seguente: 1) i Tedeschi hanno inflitto agli ebrei europei la prova di un martirio senza precedenti; 2) è quindi imperativo venire in aiuto dei sopravvissuti di questa comunità; 3) quest’ultima dovrebbe essere risarcita con tutti i mezzi possibili; 4) a sofferenza eccezionale, rimedio eccezionale: non è certo normale concedere a un popolo, neppure solo in parte, terre che appartengono a un altro popolo ma, per gli ebrei, che hanno tanto sofferto, si farà eccezione a scapito… dei Palestinesi. (Perché non a scapito dei criminali europei?, si chiedeva lo storico britannico Arnold Toynbee, che credeva nell’“Olocausto”.)

È normalmente vietato impossessarsi delle proprietà altrui, espellere un popolo dalla sua terra con la violenza, cercare di schiavizzare questo popolo, negargli il diritto ad uno Stato, ad un esercito, ad una moneta, a dettargli la propria legge, a rinchiuderlo nei bantustan, a contenerlo in una prigione le cui mura sono molto più alte e molto più formidabili del “Muro di Berlino”. Eppure questo è ciò che, dal 1948 ad oggi, in spregio dei diritti più elementari, gli ebrei della diaspora sono arrivati a realizzare in terra di Palestina. Hanno disprezzato tutte le promesse fatte all’ONU di rispettare, in parte, i diritti dei Palestinesi e, di seguito, hanno considerato nulli tutti i richiami all’ordine da parte dell’ONU. Oggi, chiunque resista loro con le armi è chiamato “terrorista” da ebrei e sionisti. Chiunque denunci il loro colonialismo lo dichiarano “antisemita”. Infine, chiunque dimostri che il loro “Olocausto” o “Shoah” è solo un mito viene denunciato come un “negatore” o un “negazionista”, guidato dallo spirito diabolico del dubbio.

“Terrorista”, “antisemita”, “negatore” o “negazionista”, queste parole imprimono sulla fronte dell’avversario il segno di Caino. Ma compito dello storico o del ricercatore è guardare da vicino la realtà che si nasconde dietro questi insulti. E questa realtà è che ebrei e sionisti hanno mentito e continuano a mentire. Il loro cosiddetto “Olocausto” è una menzogna storica, che è straordinariamente vantaggiosa per loro e che devono salvaguardare a tutti i costi. Questa menzogna esorbitante e questa truffa di dimensioni quasi planetarie aggravano sia il caso dei sionisti, venuti per derubare e uccidere i Palestinesi, sia quello degli ebrei della diaspora, che approvano il sionismo e lo finanziano.

Hitler cercò effettivamente di espellere gli ebrei dall’Europa. Molti altri paesi prima della Germania, nel corso dei millenni e fino ai tempi moderni, avevano voluto espellere gli ebrei dai propri territori. Sulle ragioni di questo rifiuto quasi universale si consiglia di leggere la prima pagina del libro dell’ebreo Bernard Lazare, L’antisemitismo: la sua storia e le sue cause, pubblicato nel 1894. In sintesi, per questo autore, è proprio a causa del loro comportamento, in ogni luogo e in ogni tempo, che gli ebrei, inizialmente ben accolti, finirono per suscitare l’insofferenza e la rivolta degli indigeni.

Prima e durante la guerra, in numerose occasioni e anche di nuovo nell’aprile del 1945, Hitler e i leader nazionalsocialisti offrirono pubblicamente agli Alleati di accogliere a casa loro gli ebrei d’Europa. “Portateli a casa vostra, questi ebrei che trovate così meravigliosi; ve li regaliamo noi. Perché esitate?” Questo era più o meno il linguaggio nazionalsocialista. Salvo rare eccezioni, gli Alleati risposero con il silenzio o con il rifiuto. Questo perché sapevano perfettamente che Hitler non stava affatto sterminando gli ebrei. Abbiamo, per esempio, prove documentali che gli alti funzionari alleati non credevano a queste folli storie sulle camere a gas ed è per questo che, né durante la guerra né dopo la guerra, Churchill, De Gaulle, Eisenhower, Stalin, Benes e altri non parlarono mai di queste mostruosità da Grand Guignol. Hitler aspirava soltanto ad una “soluzione finale territoriale della questione ebraica”. Gli storici di corte rimuovono sistematicamente questo ingombrante aggettivo “territoriale”; preferiscono parlare solo di “soluzione finale” e, grazie a tale scorciatoia abusiva, danno l’impressione che si trattasse di una soluzione della questione ebraica attraverso lo sterminio sistematico! Hitler, in realtà, voleva vedere creato un territorio per gli ebrei fuori dall’Europa, ma non in Palestina.

Tuttavia, nell’impossibilità pratica di sbarazzarsi di qualche milione di ebrei o di trovare loro un territorio durante la guerra, decise di parcheggiarne un certo numero (non tutti!) in campi di concentramento o di lavoro, con la speranza di risolvere “la questione ebraica” dopo la fine del conflitto. Nonostante gli sforzi profusi dall’amministrazione e dai medici dal punto di vista sanitario, terribili epidemie, in particolare di tifo, devastarono questi campi. Va detto che, da generazioni, il tifo era endemico tra gli ebrei dell’Est. Negli ultimi mesi di guerra, sotto l’effetto soprattutto dei bombardamenti angloamericani e della penetrazione delle truppe sovietiche, la Germania ha vissuto un’apocalisse e, con la paralisi dei suoi mezzi di produzione e di comunicazione, le sorti di tutti sono notevolmente peggiorate. Quando gli Alleati liberarono i campi di concentramento o di lavoro, fotografarono con insistenza i morti e i moribondi e distribuirono queste fotografie in tutto il mondo, tenendo nascoste le fotografie che mostravano folle di internati che, nonostante tutto, erano rimasti in buona salute. Filmarono i forni crematori come se i Tedeschi li avessero usati per uccidere gli uomini, mentre questi forni erano stati usati per cremare i cadaveri: un metodo più sano e moderno della sepoltura, soprattutto dove c’era rischio di epidemia e di contaminazione. Gli Alleati mostrarono anche camere a gas disinfettanti come se fossero state usate per uccidere i detenuti quando in realtà servivano per disinfettare gli indumenti e, quindi, per proteggere la salute di tutti. Esponevano scatole di insetticida (lo Zyklon B) come se fosse stato utilizzato per asfissiare gli esseri umani mentre questo prodotto veniva impiegato per uccidere i pidocchi, vettori del tifo. Mostravano mucchi di capelli, scarpe, occhiali o vestiti come se questi oggetti fossero appartenuti a persone “gasate” mentre è noto che, in tutta l’Europa in guerra, soggetta al blocco e sofferente per una diffusa penuria e carestia, si procedeva a recuperare e riciclare tutti i materiali possibili, compresi i capelli, che venivano utilizzati nell’industria tessile dell’epoca; era quindi normale trovare in questi campi e fuori dai campi quantità di magazzini o laboratori dove questi oggetti e materiali venivano riciclati. In altre parole, in sintesi, ciò che la Germania, una nazione moderna, aveva intrapreso per salvare vite umane e garantire la sopravvivenza in tempi sia di guerra che di economia di guerra, gli Alleati riuscirono, attraverso un’abile propaganda, a presentarlo come un’impresa di sterminio fisico di esseri umani. Questa propaganda ha saputo sfruttare le antiche superstizioni secondo cui il medico, il chimico e lo scienziato sono più o meno in combutta con il Diavolo.

Quanto alla Germania, schiacciata, non aveva altra risorsa che sottomettersi alla volontà dei suoi conquistatori. Al processo di Norimberga e in un centinaio di altri processi-farsa, le fu impedito di presentare liberamente la propria difesa e, senza prove reali, senza una vera competenza tecnica o scientifica, i suoi vincitori la dichiararono colpevole di abomini inverosimili. Si è piegata, si è incolpata essa stessa e, per sessant’anni, i suoi leader e le sue élite hanno continuato a praticare l’autoflagellazione imposta al grande vinto. La Germania non ha altra scelta. Oggi, se mai un alto dirigente del paese denunciasse la menzogna dell’”Olocausto”, i clamori degli ebrei e l’indignazione dei media assumerebbero proporzioni tali da decretare il boicottaggio della Germania, le quotazioni dei titoli azionari tedeschi crollerebbero e il paese andrebbe dritto verso la disoccupazione di massa e la rovina.

I revisionisti hanno ampiamente dimostrato che non è esistito, neppure poteva esistere, un solo ordine di Hitler di uccidere gli ebrei. Abbiamo la prova che, anche durante la guerra, soldati o ufficiali tedeschi colpevoli dell’omicidio, anche di un solo ebreo o di una sola ebrea, potevano essere portati davanti a un consiglio di guerra, condannati a morte e giustiziati, il che ovviamente non significa che, ad esempio, prese nel vivo dell’azione, in particolare contro cecchini e partigiani, le truppe tedesche non si siano lasciate andare a eccessi o abomini nei confronti dei civili. Nella Germania nazionalsocialista non esisteva né un ordine, né una direttiva, né un’istruzione che prescrivesse l’uccisione degli ebrei. Non esistevano misure per controllare questa presunta impresa di sterminio, nessun budget, nessun ufficio o alcun dirigente responsabile dell’attuazione di tale politica. Il 20 gennaio 1942, nella cosiddetta riunione di Berlino-Wannsee, quindici funzionari tedeschi discussero vagamente per alcune ore una politica di espulsione degli ebrei dal campo europeo e, temporaneamente, in attesa della fine della guerra, dei lavori forzati di uomini e donne capaci di lavorare. Sempre in questa riunione, si ipotizzò che dopo la guerra ci sarebbe stata una “rinascita” ebraica fuori dall’Europa, con i migliori ebrei sopravvissuti alla deportazione e al lavoro forzato come “cellula seminale” di tale rinascita. Prima della guerra e anche all’inizio della guerra, i Tedeschi avevano preso seriamente in considerazione la soluzione di insediare gli ebrei europei nell’isola del Madagascar. Essi riprendevano un’idea studiata fin dal 1937 dalle autorità polacche, francesi, britanniche e perfino dall’American Jewish Joint Distribution Committee, ma con l’intensificarsi della guerra dovettero abbandonare questo progetto. Per quanto riguarda l’insediamento degli ebrei europei in Palestina, i Tedeschi finirono per opporsi fermamente. Ancora nel gennaio 1944, durante i colloqui con gli Inglesi, il Ministero degli Esteri tedesco dichiarò agli Inglesi che, se questi ultimi fossero stati disposti ad accogliere un convoglio di 5.000 ebrei, di cui l’85% bambini e il 15% accompagnatori adulti, ciò si sarebbe potuto verificare solo a condizione di ospitarli stabilmente in Gran Bretagna con il divieto di emigrare in Palestina:

Il governo del Reich non può prestarsi a una manovra volta a consentire agli ebrei di cacciare il nobile e valoroso popolo arabo dalla sua madrepatria, la Palestina. Questi colloqui possono proseguire solo a condizione che il governo britannico si dichiari pronto ad accogliere gli ebrei in Gran Bretagna, e non in Palestina, e garantisca loro che potranno stabilirsi lì definitivamente [ricordo di von Thadden, del Gruppo Inland II del Ministero degli Affari Esteri, Berlino, 29 aprile 1944; documento catalogato dagli Alleati con il numero NG-1794 e riprodotto in francese da Henri Monneray, ex procuratore aggiunto della delegazione francese al processo di Norimberga, nella sua opera La Persécution des juifs dans les Pays de l’Est, raccolta di documenti, Éditions du Centre [di documentazione ebraica contemporanea], Parigi 1949, p. 169-170].

 

Il 18 gennaio 1945 Heinrich Himmler scriveva in una nota personale dopo un incontro con il presidente svizzero Jean-Marie Musy, che fungeva da intermediario per gli Americani:

Gli ho di nuovo precisato la mia posizione. Noi assegniamo gli ebrei al lavoro e, beninteso, inclusi i lavori duri quali la costruzione di strade, di canali, gli scavi minerari e lì vi trovano una forte mortalità. Da quando sono in corso le discussioni sul miglioramento delle condizioni di vita degli ebrei, essi sono impiegati ai lavori normali, ma va da sé che devono, come ogni Tedesco, lavorare negli armamenti. Il nostro punto di vista sulla questione ebraica è il seguente: la presa di posizione dell’America e dell’Inghilterra verso gli ebrei non ci interessa in alcun modo. Ciò che è chiaro è che non li vogliamo avere in Germania e nell’ambito della vita tedesca in ragione dell’esperienza più che decennale dopo la [prima] guerra mondiale, e che non intavoleremo alcuna discussione su questo argomento. Se l’America li vuole prendere, ce ne rallegreremo. Ma deve essere escluso, e su ciò una garanzia ci dovrà esser data, che gli ebrei che lasceremo uscire tramite la Svizzera non possano mai essere respinti verso la Palestina. Noi sappiamo che gli Arabi, tanto quanto lo facciamo noi Tedeschi, rifiutano gli ebrei e noi non vogliamo prestarci ad un’indecenza [Unanständigkeit] quale quella di inviare dei nuovi ebrei a quel povero popolo martirizzato dagli ebrei [documento originale, con annotazioni manoscritte di Himmler, riprodotto da Werner Maser, Nürnberg, Tribunal der Sieger, Droemer Knaur, Monaco-Zurigo 1979, pp. 262-263].

 

Nella loro guerra comune contro gli Inglesi da un lato e il comunismo sovietico dall’altro, Adolf Hitler e il Gran Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin Al Husseini, erano alleati. Le formazioni delle SS, come le divisioni SS “Handschar” (scimitarra) o “Skanderbeg” (nome dell’eroe nazionale albanese), erano in gran parte o interamente composte da musulmani e, in varie parti d’Europa, a cominciare dalla Francia, gli arabi avevano sostenuto la causa della Germania. In Iraq, anche Rachid Ali e, in India, Chandra Bose, fondatore dell’Esercito nazionale indiano, si erano schierati con la Germania e contro la Gran Bretagna.

Oggi la propaganda ebraica e sionista cerca di infangare questi uomini così come infanga il resto del mondo. Accusa gli Alleati di essere rimasti indifferenti alla sorte disastrosa degli ebrei durante la guerra. Accusa i neutrali di non aver partecipato alla crociata contro la Germania. Accusa il Vaticano. Accusa il Comitato internazionale della Croce Rossa. Accusa gli ebrei che, durante la guerra, facevano parte dei “Consigli ebraici” mantenendo rapporti con i Tedeschi. Accusa i sionisti del Gruppo Stern che, nel 1941, proposero alla Germania un’alleanza militare contro la Gran Bretagna. Accusa tutti i sionisti stabilitisi in Palestina e la loro stampa di aver accolto con scetticismo, durante la guerra, le voci che circolavano sui massacri di ebrei a Babi Yar o altrove e sulle camere a gas. Accusa il mondo intero, o quasi.

È giunto il momento di porre fine a questa marea di accuse, che affonda le sue radici nel mito dell’“Olocausto”. A partire dagli anni ’80, importanti storici o autori, tra cui alcuni di origine ebraica, sono arrivati a rendersi conto della solidità dell’argomentazione revisionista e ad abbandonare, di conseguenza, interi settori della loro fede nella dottrina dell’“Olocausto” con le sue false “camere a gas” e le sue presunte “sei milioni di vittime”. Allo stesso tempo, gli alti rappresentanti del sionismo sono stati gradualmente costretti ad abbandonare interi settori della loro fede nell’utopia del “Grande Israele”. Queste due credenze, questi due miti, che ne formano uno solo, finiranno nella pattumiera della storia.

L’Iran e il suo presidente, Mahmoud Ahmadinejad, si sono posti in prima linea nella lotta contro questo doppio mito. A loro dovrebbe essere grata non solo la Palestina e la comunità arabo-musulmana ma, come vediamo, il mondo intero, o quasi.

4 febbraio 2006