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I processi Zündel a Toronto (1985 e 1988)

Ernst Zündel è stato condannato il 13 maggio 1988 dal giudice Ron Thomas (Corte distrettuale dell’Ontario, Toronto, Canada) a nove mesi di prigione ed immediatamente incarcerato per aver diffuso un testo revisionista già vecchio di quattordici anni: Did Six Million Really Die?

Zündel vive a Toronto dove, fino a questi ultimi anni, esercitava la professione di grafico e pubblicitario. Ha quarantanove anni. Nato in Germania, ha conservato la nazionalità tedesca. La sua vita è stata gravemente sconvolta dal giorno in cui, verso il 1981, ha iniziato a diffondere l’opuscolo revisionista di Richard Harwood: Did Six Million Really Die? (Ne sono morti veramente sei milioni?). Questo opuscolo era stato pubblicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1974 ed aveva suscitato l’anno successivo una lunga controversia in Books and Bookmen. Su intervento della comunità ebraica sud-africana, fu poi vietato in Sudafrica. In Canada, ad un primo processo, nel 1985, Zündel era stato condannato a quindici mesi di prigione. Questo processo è stato annullato nel 1987. Un nuovo processo è iniziato il 18 gennaio 1988. Ho partecipato ai preparativi e allo svolgimento di queste azioni giudiziarie. Ho consacrato migliaia di ore alla difesa di Ernst Zündel.

Già François Duprat

Fin dal 1967 il Francese François Duprat aveva pubblicato un articolo su “Il mistero delle camere a gas” (Défense de l’Occident, giugno 1967, pp. 30-33). Egli si doveva poi interessare all’opuscolo di Harwood assicurandone attivamente la diffusione. Il 18 marzo 1978 veniva ucciso da assassini provvisti di mezzi troppo complessi per non appartenere ad un servizio segreto. Questo delitto fu rivendicato da un “Commando della Memoria” e da un “Gruppo Rivoluzionario Ebraico” (Le Monde, 23 marzo 1978, p. 7). Patrice Chairoff aveva pubblicato l’indirizzo di Duprat in Dossier néo-nazisme; egli giustificò l’assassinio dalle colonne di Le Monde (26 aprile 1978, p. 9) e il revisionismo della vittima gli ispirò la seguente riflessione: “François Duprat è responsabile. Ci sono responsabilità che uccidono”. In Le Droit de vivre, organo della Licra (Ligue internationale contre le racisme et l’anti-sémitisme), Jean Pierre-Bloch espresse una posizione ambigua: riprovava il crimine ma, nello stesso tempo, lasciava scorgere che non provava pietà per quanti, come la vittima, si impegnavano sulla via del revisionismo (Le Monde, 7-8 maggio 1978).

Pierre Viansson-Ponté

Otto mesi dopo il delitto, il giornalista Pierre Viansson-Ponté aveva lanciato un violento attacco contro l’opuscolo di Harwood. La sua esposizione si intitolava “La menzogna” (Le Monde, 17-18 luglio 1977, p. 13). Essa veniva ripresa con un commento elogiativo su Le Droit de vivre. Sei mesi dopo l’assassinio P. Viansson-Ponté ripartiva all’attacco (“La menzogna – seguito”, Le Monde, 3-4 settembre 1978, p. 9). Egli passava sotto silenzio la morte di François Duprat; rivelava cognomi, nomi e città d’origine di tre lettori revisionisti e faceva appello alla repressione giudiziaria contro il revisionismo.

Sabina Citron contro Ernst Zündel

Nel 1984 in Canada, Sabina Citron, responsabile di un’associazione per il ricordo dell’Olocausto, provocò violente manifestazioni contro Zündel. Ci fu un attentato contro il domicilio di quest’ultimo. L’amministrazione postale canadese, assimilando la letteratura revisionista a quella pornografica, gli aveva rifiutato ogni invio e ogni ricezione di corrispondenza ed egli non poteva riavere i suoi diritti postali se non al termine di un anno di procedure giudiziarie. Nel frattempo, la sua posizione era andata peggiorando. Su istigazione di Sabina Citron, il procuratore generale dell’Ontario presentò una denuncia contro Zündel per “diffusione di falsa notizia”. L’accusa si basava sul seguente ragionamento: l’accusato aveva abusato del suo diritto alla libertà d’espressione e, diffondendo l’opuscolo di Harwood propagava un’asserzione che sapeva falsa; infatti egli non poteva ignorare che il “genocidio degli ebrei” e le “camere a gas” sono un fatto assodato.

Zündel era anche accusato di aver personalmente scritto e diffuso una lettera con la stessa ispirazione dell’opuscolo.

Il primo processo (1985)

Il primo processo durò sette settimane. La giuria dichiarò Zündel non colpevole per la sua lettera ma colpevole per la diffusione dell’opuscolo. Egli fu condannato dal giudice Hugh Locke a 15 mesi di carcere. Il consolato tedesco di Toronto gli ritirò il passaporto. La Rft presentò contro di lui una richiesta d’estradizione. Prima, le autorità della Rft avevano lanciato su tutto il territorio nazionale una gigantesca operazione di perquisizioni poliziesche eseguite nello stesso giorno presso tutti i suoi corrispondenti tedeschi. Nel 1987 gli Stati Uniti gli vietavano l’accesso al loro territorio. Ma Zündel aveva riportato una vittoria mediatica: giorno dopo giorno, per sette settimane, tutti i mezzi di comunicazione anglofoni avevano parlato di un processo dalle rivelazioni spettacolari; ne era emerso che i revisionisti possedevano una documentazione e un’argomentazione di prima forza mentre gli sterminazionisti erano con le spalle al muro.

Il loro esperto: Raul Hilberg

In questo primo processo, l’esperto dell’accusa fu Raul Hilberg, un professore americano d’origine ebraica, autore di un’opera di base: The Destruction of the European Jews (1961) di cui tratta Paul Rassinier in Le Drame des Juifs européens (1964). Hilberg cominciò sviluppando senza remore la sua tesi sullo sterminio degli ebrei. Poi venne il momento del suo controinterrogatorio, condotto dall’avvocato di Zündel, Douglas Christie, con l’assistenza di Keitie Zubko e mia. Fin dalle prime domande, si capì come Hilberg, che era la più alta autorità mondiale in materia di storia dell’Olocausto, non avesse esaminato un solo campo di concentramento, neppure Auschwitz. Non lo aveva fatto né prima di pubblicare il suo libro nel 1961, né dopo. Ancora nel 1985, quando annunciava l’imminente uscita in tre volumi di una nuova edizione, rivista, corretta e ampliata, egli non aveva esaminato alcun campo. Era stato ad Auschwitz nel 1979 per un sol giorno in occasione di una cerimonia. Non aveva avuto la curiosità di esaminare né i luoghi né gli archivi. In tutta la sua vita non aveva visto una “camera a gas”, né “nella condizione originaria”, né ridotta in rovine (per lo storico le rovine sono sempre parlanti). Fu spinto ad ammettere che, per quello che chiamava la politica di sterminio degli ebrei, non erano esistiti né piano, né organismo centrale, né bilancio, né controllo. Dovette poi ammettere che, dopo il 1945, gli Alleati non avevano proceduto a nessuna sperimentazione dell'”arma del crimine” che concludesse all’esistenza di una camera a gas omicida. Nessun rapporto di autopsia aveva concluso all’assassinio di un detenuto per avvelenamento da gas. Hilberg affermò che Adolf Hitler aveva dato degli ordini per lo sterminio degli ebrei e che Heinrich Himmler, il 25 novembre 1944 (che precisione!), aveva ordinato di cessare questo sterminio, ma non fu in grado di produrre questi ordini. La difesa gli domandò se, nella nuova edizione del suo libro, continuasse ad affermare l’esistenza di questi ordini di Hitler. Egli osò rispondere affermativamente. Mentiva. E commetteva anche uno spergiuro. In questa nuova edizione (la cui prefazione è datata settembre 1984) Hilberg ha soppresso sistematicamente ogni menzione di un ordine di Hitler (si veda in proposito il resoconto di Christopher Browning, “The Revised Hilberg”, Simon Wiesenthal Center Annual, 1986, p. 294). Pregato dalla difesa di spiegare come i Tedeschi, sprovvisti di ogni piano, avessero potuto condurre a termine una gigantesca impresa come quella dello sterminio di milioni di ebrei, egli rispose che c’era stato nelle varie istanze naziste “un’incredibile armonia di spiriti, un consenso nella divinazione telepatica in seno a una vasta burocrazia” (“an incredible meeting of minds, a consensus mind-reading by a far-flung bureaucracy“).

Il testimone Arnold Friedmann

L’accusa contava sulla testimonianza dei “sopravvissuti”. Questi “sopravvissuti” erano stati scelti con cura. Dovevano dimostrare di aver visto, visto con i loro occhi, preparativi e procedure di gassazioni omicide. Dopo la guerra, in una serie di processi, come quelli di Norimberga (1945-1946), di Gerusalemme (1961) o di Francoforte (1963-1965), simili testimoni non erano mancati. Tuttavia, come ho fatto notare spesso, nessun avvocato della difesa aveva avuto il coraggio o la competenza necessari per controinterrogarli sulle gassazioni stesse. Ora, per la prima volta, a Toronto, nel 1985, un avvocato, Douglas Christie, osò chiedere spiegazioni; lo fece con l’aiuto di carte topografiche e delle mappe degli edifici e con una documentazione scientifica tanto sulle proprietà dei gas asseritamente impiegati quanto sulle capacità di cremazione sia coi forni che coi roghi. Nessuno di questi testimoni resistette alla prova, e soprattutto non lo fece un certo Arnold Friedmann; questi, come ultima risorsa, finì col confessare che si era, sì, trovato ad Auschwitz-Birkenau (dove, d’altronde, non era mai stato costretto a lavorare salvo in un’occasione per scaricare delle patate), ma che, per quel che riguardava le gassazioni, si era attenuto solo a dei “si dice”.

Il testimone Rudolf Vrba

Il testimone Rudolf Vrba aveva notorietà internazionale. Ebreo slovacco, internato ad Auschwitz e a Birkenau, era fuggito dal campo, diceva, nell’aprile 1944 in compagnia di Fred Wetzler. Ritornato in Slovacchia, aveva dettato un resoconto su Auschwitz, su Birkenau, sui loro crematori e le loro “camere a gas”.

Per la trafila di organizzazioni ebree slovacche, ungheresi e svizzere, questo resoconto pervenne a Washington, dove servì di base al famoso War Refugee Board Report, pubblicato nel novembre 1944. Ogni organismo alleato incaricato di perseguire “crimini di guerra” ed ogni procuratore alleato responsabile di processi a “criminali di guerra” avrebbero così disposto della versione ufficiale della storia di questi campi.

Vrba divenne in seguito cittadino britannico e pubblicò la sua biografia con il titolo di I Cannot Forgive (Non posso perdonare): in realtà questo libro, uscito nel 1964, era stato scritto da Alan Bestic che, nella sua prefazione, rendeva omaggio all'”attenzione considerevole [di Vrba] per tutti i dettagli” ed al suo “rispetto meticoloso e quasi fanatico per l’esattezza”. Il 30 novembre 1964 Vrba testimoniò al processo di Francoforte. Poi si stabilì in Canada e prese la nazionalità canadese. Figurò in vari film su Auschwitz ed in particolare in Shoah di Claude Lanzmann. Tutto sorrideva a questo testimone, fino al giorno in cui, nel 1985, al processo Zündel, fu controinterrogato senza riguardi. Si rivelò allora un impostore. Si scoprì che, nel suo resoconto del 1944, aveva inventato di sana pianta il numero e l’ubicazione delle “camere a gas” e dei forni crematori. Il suo libro del 1964 si apriva con una visita di Himmler a Birkenau, nel gennaio 1943, per l’inaugurazione di un nuovo crematorio con “camera a gas”; ora, l’ultima visita di Himmler risaliva al luglio 1942 e, nel gennaio 1943, il primo dei nuovi crematori era lungi dall’essere terminato. Grazie, sembra, a risorse mnemotecniche speciali e grazie ad un vero e proprio dono dell’ubiquità, Vrba aveva contato che nello spazio di 25 mesi (dall’aprile 1942 all’aprile 1944) i Tedeschi avevano “gassato” nel solo campo di Birkenau 1.765.000 ebrei, tra cui 150.000 ebrei venuti dalla Francia. Ora, Serge Klarsfeld, nel 1978, nel suo Mémorial de la déportation des Juifs de France, doveva concludere che, per tutta la durata della guerra, i Tedeschi avevano deportato verso tutti i campi di concentramento un totale di 75.721 ebrei di Francia. La cosa più grave è che la cifra di 1.765.000 ebrei “gassati” a Birkenau era stata inserita in un documento (L-022) del tribunale di Norimberga.

Stretto da tutti i lati dall’avvocato di Zündel, l’impostore non trovò altra via d’uscita che invocare, in latino, la licentia poetarum, la licenza poetica, il diritto alla finzione. Il suo libro è stato pubblicato da poco in francese; si presenta come un libro di “Rudolf Vrba con la collaborazione di Alan Bestic”; non comprende più la prefazione entusiastica di Alan Bestic; nella breve presentazione di Emile Copfermann è detto: “d’accordo con Rudolf Vrba sono state soppresse le due appendici dell’edizione inglese”. Non si precisa che queste due appendici avevano procurato, anch’esse, serie noie al nostro uomo nel 1985 al processo di Toronto.

Il secondo processo Zündel (1988)

Nel gennaio 1987 una corte composta da cinque alti magistrati decise di annullare il processo del 1985 per motivi di fondo: il giudice Hugh Locke non aveva concesso alcuna garanzia alla difesa nella scelta della giuria e la giuria era stata ingannata dal giudice sul significato stesso del processo.

Ho personalmente assistito a molti processi nella mia vita, compresi alcuni in Francia all’epoca dell’Epurazione. Mai ho incontrato un magistrato così parziale, autocratico e violento come il giudice Locke. La giustizia anglosassone offre molte più garanzie della giustizia francese ma può essere sufficiente un uomo per pervertire il migliore dei sistemi. Il giudice Locke è stato quest’uomo.

Il secondo processo iniziò il 18 gennaio 1988 presieduto dal giudice Ron Thomas, che è un amico, sembra, del giudice Locke. L’uomo è collerico, francamente ostile alla difesa ma ha più finezza del suo predecessore, e poi le osservazioni dei cinque alti magistrati lo hanno tenuto un po’ a freno. Il giudice Locke aveva moltiplicato gli ostacoli alla libera espressione dei testimoni e degli esperti della difesa; egli mi aveva, ad esempio, vietato in pratica ogni utilizzazione delle foto che avevo scattato ad Auschwitz; non avevo avuto il diritto di ricorrere ad argomenti di tipo chimico, topografico, architettonico (mentre ero stato il primo nel mondo a pubblicare le mappe dei forni crematori di Auschwitz e di Birkenau); non avevo potuto parlare né delle camere a gas americane, né delle fotografie aeree di Auschwitz e Birkenau. Anche un eminente chimico come William Lindsey era stato frenato nel corso della sua deposizione. Il giudice Thomas, per parte sua, doveva consentire maggiore libertà alla difesa ma, all’improvviso, su richiesta dell’accusa, prese una decisione di natura tale da legare le mani alla giuria.

La “declaratoria legale” del giudice Thomas.

Nel diritto anglosassone, tutto deve venir provato salvo alcune evidenze (“la Gran Bretagna è governata da una monarchia”, “la sua capitale si chiama Londra”, “il giorno succede alla notte”, ecc.). Inoltre bisogna che il giudice faccia una dichiarazione (judicial notice) di queste evidenze su richiesta dell’una o dell’altra parte.

Il procuratore John Pearson ha chiesto al giudice di prendere atto in tal senso dell’Olocausto. Restava da definire questo termine. È verosimile che senza l’intervento della difesa, il giudice avrebbe definito l’Olocausto come si sarebbe potuto fare nel 1945-1946. A quell’epoca il “genocidio degli ebrei” (non si diceva ancora “l’Olocausto”) avrebbe potuto esser definito come “la distruzione ordinata e pianificata di sei milioni di ebrei, in specie con l’impiego di camere a gas”. L’inconveniente per l’accusa è che la difesa abbia avvertito il giudice che dal 1945-46 si erano prodotti numerosi cambiamenti nell’idea che gli storici sterminazionisti stessi si facevano dello sterminio degli ebrei. Per cominciare, non parlavano più di uno sterminio ma di un tentativo di sterminio. In secondo luogo, avevano finito con l’ammettere che, “malgrado le ricerche più erudite”, non si era trovata traccia di un ordine di sterminare gli ebrei. Si era prodotta poi la scissione fra “intenzionalisti” e “funzionalisti”: erano tutti d’accordo nel dire che non c’era la prova di un’intenzione sterminatrice, ma gli storici della prima scuola ritenevano che si dovesse tuttavia supporne l’esistenza, mentre quelli della seconda giudicavano lo sterminio come il frutto di iniziative personali, locali ed anarchiche: la funzione aveva in qualche modo creato l’organo! Infine, la cifra di sei milioni era stata dichiarata “simbolica” e c’erano molte divergenze sul “problema delle camere a gas”.

Il giudice Thomas, manifestamente sorpreso da questo flusso di informazioni, ha optato per la prudenza e, dopo un intervallo di riflessione, ha scelto questa definizione: l’Olocausto è stato “lo sterminio e/o l’assassinio in massa di ebrei” per opera del nazionalsocialismo. Questa definizione era degna di nota sotto vari aspetti: non vi si trovava più traccia né di un ordine di sterminio, né di un piano, né di “camere a gas”, né di sei milioni di ebrei, e nemmeno di milioni di ebrei. Essa era a tal punto priva di contenuto che non corrispondeva più a niente, poiché non si capisce che cosa possa essere un'”uccisione in massa di ebrei” (il giudice aveva accuratamente evitato di dire: degli ebrei). Da sola, questa definizione permetteva di misurare i progressi compiuti dal revisionismo storico tra il 1945 e il 1988.

Hilberg rifiuta di comparire di nuovo

Una delusione aspettava il procuratore Pearson: Raul Hilberg, malgrado ripetute richieste, si rifiutava di comparire nuovamente. La difesa, avendo avuto sentore di uno scambio di corrispondenza fra Pearson e Hilberg, pretese e ottenne la pubblicazione delle lettere e, in particolare, di una tra esse, “confidenziale”, di Hilberg, nella quale questi non nascondeva di avere un pessimo ricordo del suo controinterrogatorio del 1985. Egli temeva da parte di Douglas Christie un ritorno sugli stessi punti sui quali già era stato interrogato. Riprendendo le precise parole di questa lettera confidenziale, temeva, egli scriveva, “un tentativo per intrappolarmi segnalando ogni contraddizione apparente, per poco importante che ne fosse l’oggetto, fra la mia precedente testimonianza e quella che potrei rendere nel 1988” (“every attempt to entrap me by pointing out to any seeming contradiction, however trivial the subject might be, between my earlier testimony and an answer that I might give in 1988“). Infatti, come ho detto prima, Hilberg aveva commesso uno spergiuro palese e non poteva che temere un’accusa di spergiuro.

Christopher Browning, esperto dell’accusa

Al posto di Hilberg venne il suo amico Christopher Browning, un professore americano, specialista dell’Olocausto. Ammesso a titolo di esperto (e pagato per diversi giorni a 600 franchi francesi all’ora dal contribuente canadese), si sforzò di provare che l’opuscolo di Harwood era intessuto di menzogne e che il tentativo di sterminio degli ebrei era un fatto scientificamente accertato. Gli è andata male. Al momento del controinterrogatorio la difesa si servì dei suoi stessi argomenti per annientarlo. Per giorni si è visto il grande ed ingenuo professore, che si pavoneggiava in piedi, sedersi e raggomitolarsi dietro il banco dei testimoni come un allievo colto in fallo; con voce spenta e umile, egli finì coll’ammettere che, senza dubbio, questo processo gli insegnava molto sul piano dell’informazione storica. Come Hilberg, non aveva esaminato alcun campo di concentramento. Non aveva visitato nessun impianto di “camera a gas”. Non gli era mai venuto in mente di cercare o chiedere una perizia sull'”arma del crimine”. Nei suoi scritti egli dava molta importanza ai camion omicidi a gas; tuttavia non era in grado di fare riferimento a nessuna vera fotografia, a nessun piano, a nessuno studio tecnico, a nessuna perizia. Ignorava perfino che parole tedesche come Gaswagen, Spezialwagen, Entlausungswagen (camion di spidocchiamento) potessero avere un significato assolutamente benigno. Le sue conoscenze tecniche erano nulle. Non aveva mai esaminato le fotografie aeree di Auschwitz. Ignorava tutto delle torture subite dai Tedeschi che avevano, come Rudolf Höss, parlato di gassazioni. Non sapeva niente dei dubbi sollevati su certi discorsi di Himmler o sul diario di Joseph Goebbels.

Appassionato di processi ai criminali di guerra, egli non aveva interrogato che i procuratori, mai gli avvocati. La sua ignoranza del resoconto del processo di Norimberga era disarmante. Non aveva neppure letto ciò che Hans Frank, ex-governatore generale della Polonia, aveva dichiarato al tribunale di Norimberga a proposito del suo “diario” e dello “sterminio degli ebrei”. Errore imperdonabile! Infatti, Browning pretendeva di aver scoperto nel “diario” di Frank la prova irrefutabile dell’esistenza d’una politica di sterminio degli ebrei. Aveva scoperto una frase accusatrice. Egli non sapeva che Frank aveva fornito al tribunale una spiegazione di quel tipo di frase, estratta fra le centinaia di migliaia di frasi di un diario personale e amministrativo di 11.500 pagine. Frank aveva d’altronde consegnato spontaneamente questo “diario” agli Americani che lo arrestarono. La sincerità dell’ex-governatore della Polonia è così fuori di dubbio per chi legga la sua deposizione che Browning, invitato ad ascoltarne il contenuto, non sollevò la minima obiezione. Lo attendeva un’ultima umiliazione.

Ai fini della sua tesi, egli aveva invocato un passo del verbale della conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942); ne aveva fornito la propria traduzione; la traduzione era gravemente erronea. Per ciò stesso la sua tesi crollava. Infine, quanto alla sua spiegazione personale su una “politica di sterminio degli ebrei”, essa valeva quella di Hilberg: per Browning tutto si spiegava col “cenno di testa” (“the nod“) di Adolf Hitler. Con ciò s’intende che il Führer del popolo tedesco non aveva avuto bisogno di dare un ordine scritto o un ordine orale per lo sterminio degli ebrei: gli era bastato un “cenno della testa” per far partire l’operazione e, una volta avviata, erano stati sufficienti dei “segnali” (“signals“). Ed era stato capito!

Charles Biedermann

L’altro esperto, chiamato dall’accusa prima di Browning, era Charles Biedermann, cittadino svizzero, delegato del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr) e, soprattutto, direttore del Servizio Internazionale di Ricerche (Sir) con sede, nella Repubblica Federale Tedesca, ad Arolsen. Quest’ultimo organismo possiede informazioni di ricchezza inaudita sulla sorte individuale delle vittime del nazionalsocialismo e, in particolare, sugli ex-internati. Io dico che è ad Arolsen che si potrebbe, volendo, stabilire il vero numero di ebrei morti durante la guerra.

L’accusa non trasse, per così dire, alcun profitto dalla deposizione di questo esperto. Viceversa, il controinterrogatorio ha permesso alla difesa di segnare diversi punti. Biedermann riconobbe che il Cicr non ha mai trovato prova dell’esistenza di camere a gas assassine nei campi tedeschi. La visita di uno dei suoi delegati ad Auschwitz nel settembre del 1944 aveva concluso, tutt’al più, all’esistenza di voci in materia. Con sua confusione, l’esperto fu obbligato ad ammettere che aveva commesso un errore attribuendo ai nazionalsocialisti l’espressione “campi di sterminio”; non si era reso conto che si trattava di un’espressione coniata dagli Alleati.

Assumeva che il Cicr si era mostrato imparziale durante e dopo il conflitto; gli si è dimostrato il contrario. Il Cicr, dopo il conflitto, aveva fatto coro con gli Alleati. Biedermann dichiarò di non conoscere rapporti del Cicr sulle atrocità inflitte ai Tedeschi verso la fine della guerra e subito dopo; in particolare non sapeva niente dell’orribile trattamento riservato a molti prigionieri tedeschi. Il Cicr non possedeva nulla, così sembra, sulle deportazioni in massa delle minoranze tedesche dell’Est, sugli orrori della “grande disfatta”, sulle esecuzioni sommarie e, in particolare, sul massacro mediante fucile, mitragliatrice, vanga e zappa di 520 soldati ed ufficiali tedeschi che si erano arresi agli Americani a Dachau il 29 aprile del 1945 (eppure Victor Maurer, del Cicr, era presente). Il Sir classificava fra i “perseguitati” dal nazismo anche i prigionieri comuni che si erano trovati nei campi di concentramento. Si fidava dei dati del “Museo di Stato di Auschwitz” (organismo comunista). A partire dal 1978, per intralciare ogni ricerca revisionista, il Sir aveva chiuso le porte agli storici e ai ricercatori, salvo quelli muniti di autorizzazione speciale di uno dei dieci governi (tra cui quello di Israele) che sorvegliano la sua attività. Ormai fu vietato al Sir di procedere, come aveva fatto fino ad allora, a valutazioni statistiche sui morti nei diversi campi. I preziosi rapporti di attività annuali non dovevano più essere comunicati al pubblico, fatta eccezione per il loro primo terzo, che non presenta alcun interesse per il ricercatore. Biedermann confermò una notizia che era filtrata nel 1964 al processo di Francoforte: alla liberazione di Auschwitz, i Sovietici ed i Polacchi avevano scoperto il registro mortuario di questo complesso di 39 campi e sottocampi. Il registro era formato da 38 o 39 volumi. I Sovietici conservano a Mosca 36 o 37 di questi volumi mentre i Polacchi custodiscono al “Museo di Stato di Auschwitz” gli altri due o tre, di cui hanno fornito copia al Sir di Arolsen. Ma né i Sovietici, né i Polacchi, né il Sir autorizzano la consultazione di questi volumi. Biedermann non ha voluto neppure rivelare il numero dei morti repertoriati nei due o tre volumi posseduti dal Sir in copia. È chiaro che, se il contenuto del registro mortuario di Auschwitz fosse reso pubblico, cadrebbe il mito dei milioni di morti di questo campo.

Nessun “sopravvissuto” per l’accusa

Il giudice chiese al procuratore se aveva intenzione di chiamare dei “sopravvissuti” alla sbarra dei testimoni. Il procuratore rispose di no. L’esperienza del 1985 era stata troppo crudele. La prova del controinterrogatorio era stata devastante. È spiacevole che in Francia, al processo Barbie (1987), e in Israele, al processo Demjanjuk (1987-1988), nessun avvocato abbia seguito l’esempio fornito da Douglas Christie in Canada durante il primo processo Zündel (1985): Christie aveva dimostrato che si poteva, attraverso un controinterrogatorio sulla procedura stessa della “gassazione”, distruggere alla radice il mito del “campo di sterminio”.

I testimoni e gli esperti della difesa

La maggior parte dei testimoni e degli esperti della difesa furono tanto precisi e materialisti quanto erano potuti essere imprecisi e metafisici un Hilberg o un Browning. Lo Svedese Ditlieb Felderer proiettò circa 350 diapositive di Auschwitz e dei campi polacchi. L’Americano Mark Weber, la cui erudizione documentaria è impressionante, formulò delle messe a punto su diversi aspetti dell’Olocausto e, in particolare, sugli Einsatzgruppen. Il Tedesco Tijudar Rudolph trattò del ghetto di Lodz; rese anche una testimonianza personale su un giro di ispezione del Comitato Internazionale della Croce Rossa nei campi della Slesia e del Governatorato generale di Polonia (Auschwitz, Majdanek, ecc.) nell’autunno del 1941, finito il quale il delegato del Comitato ringraziò Hans Frank, governatore generale della Polonia, per la sua cooperazione. Thies Christophersen aveva diretto, nel 1944, nel settore di Auschwitz, un’impresa di ricerche agricole: si recava spesso al campo di Birkenau per requisirvi manodopera; non vi aveva mai constatato gli orrori abitualmente descritti; alla sbarra dei testimoni riprese punto per punto ciò che aveva descritto fin dal 1973 in un documento di 19 pagine (Kritik, n° 23, pp. 14-23).

La Canadese Maria Van Herwaarden era stata internata a Birkenau dal 1942; non vi aveva visto niente che, da vicino o da lontano, somigliasse ad un omicidio in massa, ma molti internati erano morti di tifo. L’Americano Bradley Smith, membro di un “Comitato per un pubblico dibattito sull’Olocausto”, riferì la sua esperienza di quasi cento dibattiti negli Stati Uniti sul tema dell’Olocausto. L’Austriaco Emil Lachout commentò il famoso “documento Müller” che, dal dicembre 1987, mette in ansia le autorità austriache: questo documento, datato 1° ottobre 1948, rivela che già a quella data le commissioni d’inchiesta alleate non credevano più alle “gassazioni” omicide in tutta una serie di campi come quelli di Dachau, Ravensbrück, Struthof-Natzweiler, Stuttof (Danzica), Sachsenhausen, Mauthausen, ecc. Il documento precisa che le confessioni dei Tedeschi erano state estorte con la tortura e che le testimonianze erano false.

Il dott. Russel Barton ha ripercorse la sua orrificata scoperta del campo di Bergen-Belsen alla liberazione; sul momento aveva creduto a un massacro deliberato, poi si era reso conto che, in una Germania da apocalisse, quei mucchi di cadaveri e quegli scheletri ambulanti erano dovuti alle condizioni spaventose di un campo sovraffollato, devastato dalle epidemie, senz’acqua a seguito di un bombardamento alleato, quasi interamente sprovvisto di medicine e vettovaglie. Il Tedesco Udo Walendy fece il punto delle sue ricerche revisioniste. J. G. Burg, ebreo osservante, residente a Monaco, riferì la sua esperienza della guerra e provò che mai vi fu una politica di sterminio degli ebrei da parte dei nazisti.

Docenti universitari come Kuang Fu o Gary Botting recarono il loro contributo sul piano dell’analisi al tempo stesso dei fatti storici, delle opinioni e delle interpretazioni. Jurgen Neumann si spiegò sulla natura delle ricerche che aveva svolto a fianco di Zündel. Ernst Nielsen testimoniò sugli ostacoli opposti, in una università canadese, ad una libera ricerca sull’Olocausto. Ivan Lagacé, responsabile del crematorio di Calgary (Canada), dimostrò l’impossibilità pratica delle cifre indicate da Hilberg per le cremazioni di Auschwitz.

A mia volta, io deponevo in veste di esperto per quasi sei giorni. Insistevo particolarmente sulle mie inchieste a proposito delle camere a gas americane. Ricordavo che lo Zyklon B è essenzialmente gas cianidrico e che è con questo gas che certi penitenziari americani sopprimono i loro condannati a morte. Nel 1945 gli Alleati avrebbero dovuto chiedere agli specialisti delle camere a gas americane di venire a esaminare i locali che, ad Auschwitz e altrove, erano designati essere serviti a gassare milioni di detenuti. A partire dal 1977 la mia idea era la seguente: quando si ha a che fare con un vasto problema storico come quello della realtà o della leggenda dell’Olocausto, bisogna sforzarsi di trovarne il centro; nella fattispecie il centro del problema è Auschwitz e, a sua volta, il cuore di questo centro qui può limitarsi ad uno spazio di 275 metri quadrati: cioè, ad Auschwitz, i 65 metri quadrati della “camera a gas” del crematorio I e, a Birkenau, i 210 metri quadrati della “camera a gas” del crematorio II. Nel 1988 la mia idea non era cambiata: periziamo i 275 metri quadrati ed avremo una risposta al vasto problema dell’Olocausto! Mostravo alla giuria le mie foto della camera a gas del penitenziario di Baltimora insieme alle mie mappe delle “camere a gas” di Auschwitz e sottolineavo le impossibilità fisiche e chimiche di queste ultime.

Un colpo di scena: il rapporto Leuchter

Zündel, in possesso della corrispondenza che avevo scambiato nel 1977-1978 con sei penitenziari americani muniti di camera a gas, aveva incaricato l’avvocato Barbara Kulaszka di mettersi in contatto coi guardiani-capo di questi penitenziari per vedere se uno di loro accettava di venire in tribunale a spiegare il modo di funzionamento di una vera camera a gas. Bill Armontrout, guardiano-capo del penitenziario di Jefferson City (Missouri), accettò di venire a testimoniare e segnalò che nessuno negli Stati Uniti conosceva il funzionamento delle camere a gas meglio di un ingegnere di Boston: Fred A. Leuchter. Mi recavo da lui il 3 e 4 febbraio 1988. Leuchter non si era mai posto domande sulle “camere a gas” dei campi tedeschi. Aveva sempre creduto alla loro esistenza. Dall’istante in cui cominciai ad aprirgli i miei dossier, prese coscienza dell’impossibilità materiale e chimica di queste “gassazioni” ed accettò di venire a Toronto per esaminarvi i nostri documenti.

Poi, a spese di Zündel, partì per la Polonia con una segretaria (sua moglie), il suo disegnatore, un cameraman e un interprete. Ne fece ritorno per compilare un rapporto di 192 pagine (annessi compresi) con 32 campioni prelevati, da una parte, nei crematori di Auschwitz e di Birkenau, sui luoghi delle “gassazioni” omicide, e, dall’altra, in una camera a gas di disinfestazione di Birkenau. La sua conclusione era netta: non vi era stata nessuna “gassazione” omicida né ad Auschwitz, né a Birkenau, né d’altronde a Majdanek.

Il 20 e 21 aprile del 1988 Leuchter depose alla sbarra del tribunale di Toronto. Fece il racconto della sua inchiesta e sviluppò la sua conclusione. Io dico che in quei due giorni ho assistito alla morte in diretta del mito delle camere a gas, un mito che, per me, era entrato in agonia al colloquio della Sorbonne su “La Germania e lo sterminio degli ebrei” (29 giugno – 2 luglio 1982).

Nella sala del tribunale di Toronto l’emozione era intensa, in particolare fra gli amici di Sabina Citron. Gli amici di Zündel erano sconvolti, ma per altre ragioni: vedevano infine squarciarsi il velo della grande impostura. Quanto a me, provavo sollievo e malinconia: sollievo perché una tesi che difendevo da tanti anni trovava infine piena conferma e malinconia perché avevo avuto la paternità dell’idea; avevo anche, con la goffaggine di un letterario, esposto argomenti di ordine fisico, chimico, topografico e architettonico che vedevo ripresi da uno scienziato straordinariamente preciso e didattico. Ci si ricorderà un giorno dello scetticismo che avevo incontrato, compreso quello di certi revisionisti?

Subito prima di Leuchter, era venuto alla sbarra dei testimoni Bill Armontrout e su ogni punto aveva confermato ciò che io avevo detto alla giuria sulle estreme difficoltà d’una gassazione omicida (da non confondere con una gassazione suicida o accidentale). Per parte sua, uno specialista di fotografia aerea, Ken Wilson, aveva mostrato che le “camere a gas” omicide di Auschwitz e Birkenau non possedevano i camini di evacuazione dei gas che sarebbero stati indispensabili. Mostrava anche che avevo avuto ragione di accusare Serge Klarsfeld e Jean-Claude Pressac di aver falsificato la pianta di Birkenau ne L’Album d’Auschwitz (Seuil, Parigi 1983, p. 42). Questi autori, per far credere al lettore che i gruppi di donne e bambini ebrei sorpresi dal fotografo tra i crematori II e III non potevano andare più lontano e andavano dunque a finire nelle “camere a gas” di quei crematori, avevano molto semplicemente tagliato là una strada che, in realtà, proseguiva fino al grande edificio delle docce (situato oltre la zona dei crematori) dove andavano quelle donne e quei bambini.

Venne poi alla sbarra James Roth, che ricopriva la carica di direttore di un laboratorio del Massachusetts, per rendervi conto dell’analisi dei 32 campioni, di cui ignorava la provenienza: tutti i campioni prelevati nelle “camere a gas” omicide contenevano una quantità di cianuro che era o non-individuabile oppure infinitesimale, mentre quello della camera a gas di disinfestazione di Birkenau, in paragone, ne conteneva una quantità vertiginosa (la quantità infinitesimale scoperta nel primo caso si può spiegare col fatto che le pretese camere a gas omicide erano di fatto camere fredde per la conservazione dei cadaveri; camere fredde del genere avevano potuto essere oggetto di disinfestazione per mezzo di Zyklon B).

David Irving

Lo storico inglese David Irving gode di un grande prestigio. Zündel pensava di chiedergli la sua testimonianza. Ma c’era una difficoltà: Irving era revisionista solo a mezzo. La tesi che difendeva, ad esempio in Hitler’s War (Viking Press, New York 1977), poteva riassumersi in questo modo: Hitler non ha mai dato un ordine di sterminio degli ebrei: almeno fino alla fine del 1943 egli è stato tenuto all’oscuro di questo sterminio; solo Himmler e un gruppo di circa 70 persone erano informati; nell’ottobre 1944, Himmler, che cercava ormai di entrare nelle grazie degli Alleati, aveva ordinato di cessare lo sterminio degli ebrei.

Avevo personalmente incontrato Irving a Los Angeles nel settembre del 1983 al congresso annuale dell’Institute for Historical Review e l’avevo messo in imbarazzo facendogli alcune domande sulle prove di cui disponeva a sostegno della sua tesi. Poi avevo pubblicato nel Journal of Historical Review (inverno 1984 – primavera 1985) un articolo intitolato A Challenge to David Irving (Una sfida a David Irving). Vi facevo allora un tentativo di convincere questo brillante storico del fatto che, a fil di logica, egli non poteva più accontentarsi di una posizione semirevisionista e, per cominciare, lo sfidavo a mostrarci l’ordine di Himmler, che in realtà non era mai esistito. In seguito, apprendevo da varie fonti che Irving conosceva una mutazione in senso favorevole al revisionismo.

Nel 1988 Zündel acquistava la convinzione che lo storico britannico attendesse solo un avvenimento decisivo per fare un ultimo passo nella nostra direzione.

Arrivato a Toronto Irving scoprì, l’uno dopo l’altra, il rapporto Leuchter e una mole impressionante di documenti che Zündel, i suoi amici e io stesso avevamo accumulato nel corso degli anni. Le ultime riserve o gli ultimi malintesi si dileguavano nel corso di una riunione. Egli accettava di testimoniare alla sbarra.

A parere di chi ha assistito ai due processi (quello del 1985 e quello del 1988) nessuna testimonianza, salvo quella di Leuchter, ha provocato una sensazione paragonabile. Per più di tre giorni, Irving, abbandonandosi ad una sorta di confessione pubblica, tornò su tutto ciò che aveva detto precedentemente a proposito dello sterminio degli ebrei e si schierò senza riserva alcuna sulla posizione revisionista. Con coraggio e onestà, egli mostrò come uno storico possa essere condotto a modificare profondamente le sue vedute sulla storia della seconda guerra mondiale.

La vittoria di Ernst Zündel

Ernst Zündel aveva promesso che il suo processo sarebbe stato “il processo del processo di Norimberga” o “la Stalingrado degli sterminazionisti”. Lo svolgimento di questi due lunghi processi gli ha dato ragione, e questo anche se la giuria, “istruita” dal giudice e veementemente avvisata di dover tenere l’Olocausto per un fatto assodato “che nessuna persona ragionevole può mettere in dubbio”, lo ha dichiarato colpevole. Zündel ha già vinto. Gli resta da farlo sapere al Canada e al mondo intero. Per il processo del 1988 il black-out dei media è stato all’incirca completo. Le organizzazioni ebraiche avevano fatto una campagna per ottenere questo black-out ed erano arrivate a dire che non volevano una cronaca imparziale. Non volevano nessuna cronaca. Il paradosso è che il solo periodico che si sia fatto eco del processo in condizioni relativamente oneste sia il settimanale Canadian Jewish News.

Ernst Zündel e il rapporto Leuchter sono entrati nella storia; non sono ancora vicini ad uscirne.

31 agosto 1988


(Traduzione a cura di Cesare Saletta in appendice (pp. 95-111) di Per il revisionismo storico contro Vidal-Naquet, Cesare Saletta, Graphos, Genova 1993 (Campetto 4 – 16123 Genova, Collezione di studi e documenti storici diretta da Arturo Peregalli).

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