Shoah, film di Claude Lanzmann: verso un crac dello Shoah-Business…
“Shoah” è una parola ebraica che significa catastrofe. Essa è diventata un sinonimo di sterminio, di genocidio, di olocausto. Serve come titolo ad un interminabile film di Claude Lanzmann. Marek Edelmann, uno dei vecchi capi dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia nel 1943, ha definito questo film “noioso”, “poco interessante” e “mal riuscito”.[1] Nonostante una mobilitazione generale dei media a suo favore, i Francesi – ivi compresa la comunità ebraica nel suo insieme – hanno decisamente snobbato un simile mattone. Come ultima risorsa, la segretaria generale del premio della Fondazione dell’ebraismo francese, attribuito al film Shoah, ha dichiarato: “Finirò con un’esortazione, una supplica: andate a vedere questo film, chiedete a coloro che vi circondano di andarlo a vedere.”[2] François Mitterrand ha appoggiato il film, così come Giovanni Paolo II e parecchi altri grandi del mondo. Le reti televisive hanno resistito a lungo alle pressioni, ma alla fine hanno ceduto: la gigantesca pizza verrà trasmessa. Durata: circa nove ore e mezzo.
Lanzmann vuole farci credere che le camere a gas omicide e lo sterminio degli ebrei siano realmente esistiti. Ora, ciò che il suo film dimostra soprattutto è che non ci sono né prove, né testimoni e che, come lo dimostrano i revisionisti, le camere e lo sterminio sono un solo ed unico mito. D’altronde, se si fosse trattato di una verità, ci si affretterebbe a provarcelo in una trasmissione speciale su tutte le reti televisive una bella sera, alle ore 20.30, con documenti e non con Shoah.
La verità è che Hitler ha trattato gli ebrei come nemici dichiarati, ha voluto cacciarli dall’Europa, ne ha messi un grande numero in campi di lavoro o di concentramento. Alcuni di questi campi avevano dei forni crematori per l’incenerimento dei cadaveri. Nessuno aveva camere a gas omicide. L’esistenza di questi pretesi macelli a gas fa a pugni con delle impossibilità di ordine fisico, chimico, topografico, architettonico, documentale. La sorte degli ebrei fu banalmente atroce. Ma pensiamo anche ai bambini tedeschi uccisi o mutilati dal fosforo o ancora, dal 1945 al 1947, massacrati durante il loro “trasferimento” dall’Est all’Ovest!
Né ordine, né piano, né budget
Lanzmann conosceva perfettamente la fragilità della tesi sterminazionista e la solidità degli argomenti revisionisti. Ecco una colossale impresa di sterminio della quale non si trova traccia né di un ordine, né di un progetto, né di un budget! Quanto all’arma specifica di questo crimine specifico, questa è semplicemente scomparsa! Anche il Nouvel Observateur si è fatto finalmente eco, per il grande pubblico, dell’ammissione degli specialisti: “Non esiste alcuna fotografia di camere a gas”[3], ciò che significa che quello che si continua a mostrare ai turisti in materia di camere a gas a Struthof, a Mauthausen, a Hartheim, a Dachau, a Majdanek, ad Auschwitz, non è altro che uno specchietto per allodole. Lanzmann ha partecipato al famoso simposio della Sorbona (29 giugno – 2 luglio 1982) dove queste crudeli evidenze erano improvvisamente apparse ai due organizzatori, Raymond Aron e François Furet. Egli si è sentito rafforzato nella sua convinzione: in assenza di prove e di documenti, avrebbe ribattuto ai revisionisti con un film ammaliatore e montaggi di “testimonianze”.
E perché no?
Fare questo film con il niente
È così che Lanzmann ha filmato, fino alla nausea, binari ferroviari, pietre o paesaggi; egli accompagna queste immagini lancinanti con un commento pesantemente lirico e giochi di camera destinati a “evocare” deportazioni e gasazioni. Lui stesso nel suo pathos dice: “A forza di filmare queste pietre a Treblinka, da tutte le angolature, esse hanno finito per parlare”.[4] Afferma, senza prove, che i nazisti hanno cancellato le tracce del loro gigantesco crimine. Dichiara: “Bisognava fare questo film con niente, senza documenti d’archivio, inventare tutto”.[5] O ancora: “Si trattava quindi di fare un film con tracce di tracce delle tracce […]. Con il niente si torna al niente”.[6] E pertanto i suoi turiferari l’ammirano ancora di più. “Non una sola immagine d’archivio” esclama J.-F. Held.[7] “Questo film è una fantastica reiterazione continua”[8]. Per André Glucksmann, “la forza di questo film è di mostrare non ciò che è successo – se ne guarda bene – ma la possibilità di ciò che è successo”.[9]
In questo modo il cineasta fa credere allo spettatore ciò che vuole. Le immaginazioni non chiedono altro che essere messe in moto. Accade che il risultato superi ogni speranza. Fiero della sua arte di persuadere, Lanzmann dichiarava ad un giornale americano: “Un uomo mi ha scritto, dopo aver visto il film, che era la prima volta che sentiva il grido di un piccolo bambino in una camera a gas. Forse perché la sua immaginazione era stata messa in moto”.[10] Nel campo principale di Auschwitz, Lanzmann ha filmato il crematorio dove si mostrano ai turisti, da una parte, la stanza dei forni e, dall’altra, una stanza adiacente, battezzata camera a gas (in realtà: una camera fredda per cadaveri). Ora, la sua cinepresa si mantiene nella prima stanza; vi moltiplica le piroette e le giravolte così bene che la brusca ed infinitesimale apparizione della pretesa camera a gas, quasi nell’oscurità, non può essere percepita che dall’occhio dello specialista. Chi non è avveduto può credere che Lanzmann gli abbia chiaramente mostrato una camera a gas. È una pura sbruffonata. Quanto a Lanzmann, egli può indifferentemente sostenere di aver mostrato o di non aver mostrato questa “vera” o questa “falsa” camera a gas. Tutto va di perfetto accordo.
Shoah si apre con una menzogna per omissione. Nella lista di coloro che hanno reso possibile, specialmente sul piano finanziario, la realizzazione del film, Lanzmann si guarda bene dall’indicare il primo dei committenti: lo Stato di Israele; Menachem Begin in persona aveva iniziato sbloccando 850 mila dollari per ciò che lui chiamava “un progetto di interesse nazionale ebraico”.[11] Lanzmann ha utilizzato frodi materiali o verbali di ogni tipo per trarre in inganno sia alcune persone intervistate, sia lo spettatore. Presso i suoi “testimoni” tedeschi, si è talvolta presentato “a nome di un istituto desideroso di ristabilire la verità sul preteso genocidio degli ebrei europei. […] Il denaro ha fatto decidere gli incerti”.[12] Sembra che abbia usurpato un titolo di “dottore” e utilizzato il nome di “Dott. Sorel” nei confronti del “testimone” Walter Stier. Il suo “testimone” numero uno è il barbiere Abraham Bomba; in una scena “urlante di verità”, si vede Bomba lavorare nel suo negozio e ripetere sulla chioma di un cliente i gesti che faceva, sembra, per tagliare, “nella camera a gas di Treblinka”, i capelli delle vittime. Altra sbruffonata: Bomba era barbiere a New York, era andato in pensione in Israele ed è là che Lanzmann aveva affittato un negozio e provveduto a tutta una messinscena d’accordo con Bomba.[13]
Una sala da barbiere in una camera a gas
E ora veniamo ai “testimoni” di Shoah. Non si tratta di testimoni in senso giuridico del termine. Nessuna “testimonianza” viene verificata o controllata. Nessun “testimone” viene contro-interrogato. Nessuna “testimonianza” sembra essere stata restituita nella sua forma integrale e, su 350 ore di filmati cinematografici, Lanzmann non ne ha comunque selezionate che circa nove ore e mezzo. Le “testimonianze” sono, inoltre, sistematicamente troncate e ci vengono fornite a spezzoni, su un fondo di immagini arbitrariamente scelte per mettere lo spettatore a suo agio.
La testimonianza che prima d’ogni altra ha attirato l’attenzione dei promotori di Shoah è quella di Abraham Bomba: essa però è zeppa di impossibilità materiali e di gravi punti oscuri. Bomba ci vuol far credere che lavorava a Treblinka in una stanza addetta sia a salone da barbiere sia a camera a gas! La stanza era di quattro metri per quattro. In questo spazio esiguo, c’erano, dice lui, sedici o diciassette barbieri e delle panche; sessanta o settanta donne nude entravano con un numero indefinito di bambini; perché tutto questo gruppo avesse i capelli tagliati, bastavano circa otto minuti. Nessuno lasciò la stanza; entravano poi altre settanta o ottanta donne sempre con un numero indefinito di bambini; per tutto il nuovo gruppo le operazioni di taglio duravano circa dieci minuti. Quindi il totale dei presenti ammontava a 146 o 167, senza contare i bambini e lo spazio occupato dalle panche. È una cosa puramente senza senso. I barbieri compressi in quel modo lavoravano senza sosta; lasciavano la stanza, di tanto in tanto, per soli cinque minuti: giusto il tempo necessario per la gasazione delle vittime, il ritiro dei cadaveri e la pulitura della stanza: dopodiché tutto “era pulito”. Non si dice che tipo di gas veniva utilizzato né da dove esso provenisse. E poi, come si procedeva a disperdere il gas dopo l’operazione? Lanzmann non pone queste domande. Ci sarebbe voluto un gas fulminante, che non aderisse alle superfici e senza residui sui corpi da manipolare. Bomba è un mitomane che si è verosimilmente ispirato alla pagina 191 di Treblinka di J.-F. Steiner, un libro che fu denunciato anche da P. Vidal-Naquet come un’immonda montatura[14] e che è stato redatto, almeno in parte, dal romanziere Gilles Perrault.[15]
Il “testimone” Rudolf Vrba è all’origine del mito di Auschwitz. Internato a Birkenau nelle migliori condizioni (disponeva di una stanza personale), egli ha raccontato di Auschwitz, a partire dall’aprile 1944, un numero tale di inezie che nel gennaio 1985 al processo Zündel a Toronto gli è toccata un’umiliante disavventura: il procuratore che aveva richiesto la sua testimonianza contro un revisionista aveva bruscamente rinunciato ad interrogarlo in seguito, tanto era diventato evidente che Vrba era un bugiardo matricolato. Aveva totalmente inventato fatti e numeri. In particolare, sosteneva di aver contato personalmente 150 mila ebrei francesi gasati in 24 mesi a Birkenau; ora, per tutta la durata della guerra, Serge Klarsfeld aveva dimostrato che i Tedeschi avevano deportato verso tutti i campi circa 75.721 ebrei francesi. Essendogli stato intimato di giustificarsi su quanto scrisse su una certa visita di Himmler ad Auschwitz per l’inaugurazione delle nuove camere a gas, fece appello, lui, l’uomo di tutte le precisazioni più scrupolose, alla “licenza poetica”.
Un testimone salvato da giovani bellezze nude
Il “testimone” Filip Müller è della stessa tempra. È l’autore di Trois ans dans une chambre à gaz d’Auschwitz. Questo best-seller nauseabondo è il risultato del lavoro di un “negro” tedesco, Helmut Freitag, che non ha esitato davanti al plagio; vedi Carlo Mattogno, “Filip Müller’s Plagiarism” ripreso in Auschwitz: un caso di plagio. La fonte del plagio è Medico ad Auschwitz, altro best-seller firmato da Miklos Nyiszli. Nel film dice che nella grande camera a gas di Birkenau si potevano gasare fino a tremila persone alla volta e che al momento della gasazione “quasi tutti si precipitavano verso la porta” e, infine, che “là dove veniva versato lo Zyklon B c’era il vuoto”. Si guarda bene dal dire che la camera in questione (di fatto una camera mortuaria: Leichenkeller) misurava tutt’al più 210 metri quadrati, ciò che avrebbe impedito qualsiasi spostamento. Dice che a tutta questa gente bastavano soltanto tre o quattro ore per entrare nello spogliatoio (con tremila attaccapanni!), svestirsi, passare nella camera a gas, esservi gasata, essere trasportata nella stanza dei forni e lì essere bruciata e ridotta in cenere. Non dice che c’erano soltanto quindici bocche da fuoco; considerando un’ora e mezzo di tempo per ridurre in cenere un cadavere, ci sarebbero voluti dodici giorni e dodici notti di funzionamento ininterrotto per realizzare tale prodezza tecnica. E c’erano diverse infornate giornaliere di vittime da gasare e da bruciare! Nel film racconta come le vittime intonavano l’inno nazionale cecoslovacco e l’inno ebraico: la Hatikva. Qui si inspira ad una “testimonianza” secondo la quale le vittime intonavano l’inno nazionale polacco e la Hatikva fino a che i due canti si confondono… nell’Internazionale.[16] Nel libro (pag. 154-155), ma non nel film, egli racconta come, deciso a morire nella camera a gas, egli fu dissuaso da uno sciame di giovani bellezze nude che lo spinsero fuori con la forza per morire tutte sole: lui sarebbe servito da testimone. Alla pag. 83 afferma che i medici nazisti palpavano le cosce e i genitali genitali degli uomini e delle donne ancora in vita e che dopo la morte delle vittime, i pezzi prelevati dai corpi venivano gettati in un recipiente (nella versione originale tedesca, i recipienti erano soggetti a movimenti a scatti per effetto della contrazione dei muscoli).[17]
Questo è Filip Müller, il grande “testimone” di C. Lanzmann.
Il suo “testimone” Karski parla con enfasi del ghetto di Varsavia ma senza dirne niente. È un peccato che Lanzmann non ce lo abbia fatto sentire sulla sua pretesa esperienza nel campo di Belzec. Jan Karski raccontava che gli ebrei vi venivano uccisi con la calce viva nei vagoni. “Non lo citerei, nemmeno in una nota a piè di pagina”, ha dovuto dire Raul Hilberg.[18]
Il “testimone” Raul Hilberg ha molto più valore. Lanzmann è stato criticato per aver fatto posto nel film a questo professore americano, di origine austro-ebraica, che non ha conosciuto niente dei campi. Hilberg è il papa della teoria sterminazionista. È l’uomo che finì per riconoscere che non era esistito né ordine, né progetto, né budget per lo sterminio degli ebrei. Nonostante ciò, a questo sterminio crede disparatamente. E quella che interessante è la sua disperazione di intellettuale. Qualsiasi spettatore attento del film vedrà a quale punto Hilberg si lascia andare in pure speculazioni per difendere la sua teoria. Ciò salta agli occhi in tutto il suo disquisire sulle ferrovie tedesche che, a suo dire, trasportavano apertamente gli ebrei da Varsavia a Treblinka. Egli ricorda le ore precise delle partenze e degli arrivi. E ne trae la conclusione… che gli ebrei venivano quindi inviati alle camere a gas di Treblinka. In nessun momento egli ci dà la prova che Treblinka possedesse tali camere a gas.
Il “testimone” Suchomel è un ex sergente di Treblinka. Fintanto che parla di cose diverse da gasazione omicida, è relativamente preciso. Non appena affronta il capitolo di questa gasazione, diventa nebuloso. Non ne precisa né l’ubicazione, né le dimensione, né il funzionamento. Tant’è che parla sia di “camera a gas” che di “camere a gas” senza che Lanzmann gli chieda di eliminare l’equivoco. Non rivela nemmeno il tipo di gas. Parla di “motori”. La leggenda che ha corso legale è quella che c’era un “motore diesel” (Gerstein); sappiamo, però, che il diesel non è idoneo per asfissiare. In nessun momento dice di aver assistito ad una gasazione. Dice che, il giorno del suo arrivo, “proprio nel momento in cui stavamo passando, loro stavano aprendo le porte della camera a gas… e le persone cadevano come delle patate”. Dunque al massimo a visto dei cadaveri. Niente gli permetteva di affermare che il locale era una camera a gas. Era appena arrivato. Al limite riferisce un sentito dire. D’altra parte, tutto quanto dice implica che in quel campo c’erano degli ebrei, dei cadaveri, forse uno o più roghi e, probabilmente, delle docce e delle camere a gas per la disinfestazione. Mostra la parte bassa di una planimetria, ma nell’oscurità. Cos’è questa planimetria? Parla con autorevolezza delle gasazioni di Auschwitz dove non ha mai messo piede. Con la stessa autorevolezza parla delle gasazioni di Treblinka ma mai in quanto testimone oculare. Assomiglia a quegli autodidatti che riversano su un dato soggetto il risultato delle loro letture, ma che verrebbero disarcionati alla prima domanda diretta e precisa. Mai, però, Lanzmann gli pone quella domanda.
Da quando il mito delle camere a gas è in pericolo, si ha la tendenza a ripiegare su quello dei fantomatici camion a gas. Claude Lanzmann ci fa molto passeggiare in camion. È forse su questo soggetto che i suoi “testimoni” sono i meno verosimili ed i più contraddittori. Per ritirare la posta, Lanzmann ci infligge la lettura di un documento (lui che non voleva documenti) sui camion speciali Saurer. Per lui c’è solo una disgrazia ed è quella che lui ha gravemente manipolato il testo, cercando particolarmente di toglierne le più evidenti assurdità. Gli specialisti troveranno il documento nella sua integralità in NS-Massentötungen durch Giftgas (“Omicidi di massa nazionalsocialisti tramite gas venefico”).[19]
Treblinka: niente di segreto
In quanto ai bravi contadini polacchi nei dintorni di Treblinka e al conducente del locomotore, essi sembrano essere stati abbagliati dalla ricchezza degli ebrei arrivati in treni viaggiatori e, se avessero pensato che i Tedeschi li avrebbero uccisi, avrebbero creduto che ciò sarebbe avvenuto tramite strangolamento o impiccagione. Nessuno di loro è stato testimone di gasazioni. Però è inammissibile che gasazioni simili ed in quantità così grandi siano loro sfuggite. Treblinka, situato a 100 chilometri da Varsavia, non aveva niente di segreto. Richard Glazar, intervistato da Lanzmann, non dice nel film ciò che ha confidato alla storica Gitta Sereny Honeyman: tutti i Polacchi tra Varsavia e Treblinka dovevano conoscere il posto, ci si veniva a fare scambi con gli ebrei del campo, i contadini in particolar modo; c’era prostituzione con le guardie ucraine; Treblinka era un vero “circo” per i contadini e le prostitute.[20]
Lanzmann ha paura dei revisionisti. Ha dichiarato: “Incontro spesso persone che dicono che il film Shoah non è obiettivo perché non vi si mostrano interviste con coloro che hanno negato l’Olocausto. Ma se tentate di discutere su questo punto, vi troverete presi in una trappola.”[21]
Effettivamente, le rare volte che i revisionisti hanno potuto attirare degli sterminazionisti in una discussione, questi ultimi hanno subito cocenti delusioni. Ma il grande pubblico comprende sempre meno questo rifiuto alla discussione per radio o alla televisione. Se i revisionisti dicono bugie, perché non confonderli pubblicamente? D’altronde, dicono veramente delle bugie? Serge Klarsfeld non ha lui stesso riconosciuto che non erano ancora state pubblicate “prove vere” dell’esistenza delle camere a gas ma solamente degli “inizi di prove”?[22]
L’ultima guerra con la Germania ebbe fine l’8 maggio 1945. Ma alcuni considerano apparentemente che bisogna continuare questa guerra persistendo nel propagare orribili invenzioni della propaganda di guerra; lo si fa attraverso processi, o per mezzo dei media, i quali incrementano sempre più il tam-tam olocaustico. Bisognerebbe smetterla. Si è andati ben oltre. La pace e la riconciliazione esigono un altro comportamento. Lo Shoah business ci conduce ad un punto morto. Le giovani generazioni ebraiche hanno di meglio da fare che rinchiudersi nelle credenze assurde della religione dell’Olocausto. Il loro rifiuto di interessarsi al film Shoah sarebbe, se venisse confermato, un primo segno di rifiuto, da parte della nuova generazione, della mitologia ufficiale almeno per quanto concerne la Seconda Guerra mondiale e le sue conseguenze.
18 giugno 1987
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Note
[1] Le Monde, 2 novembre 1985, p. 3.
[2] Hamoré, giugno 1986, p. 37.
[3] Nouvel observateur, 26 aprile 1983, p. 33.
[4] Libération, 25 aprile 1985, p. 22.
[5] Le Matin de Paris, 29 aprile 1985, p. 12.
[6] L’Express, 10 maggio 1985, p. 40.
[7] L’Événement du jeudi, 2 maggio 1985, p. 80.
[8] L’Autre Journal, maggio 1985, p. 48.
[9] A. Glucksmann, Le Droit de vivre, febbraio-marzo 1986, p. 21.
[10] New York Times, 20 ottobre 1985, sez. 2, p. H-l.
[11] Jewish Journal (New York), 27 giugno 1986, p. 3 e Bulletin quotidien d’informations de l’agence télégraphique juive, 20 giugno 1986.
[12] Reportage di Annette Lévy-Willard e Laurent Joffrin, Libération, 25 aprile 1985, p. 22.
[13] Jean-Charles Szurek, L’Autre Groupe, 10, 1986, p. 65 ; Times (Londra), 2 marzo 1986 ; L’Autre Journal, maggio 1985, p. 47.
[14] P. Vidal-Naquet, Les Juifs, la mémoire et le présent, Maspero, Parigi 1981, p. 212.
[15] Le Journal du Dimanche (Parigi), 30 marzo 1986, p. 5.
[16] Racconto riprodotto da B. Mark, Des Voix dans la nuit, Plon, Parigi 1982, p. 247.
[17] Sonderbehandlung, Steinhausen, Monaco 1979, p. 74.
[18] E. Meyer, “Recording the Holocaust”, Jerusalem Post International Edition, 28 giugno 1986, p. 9.
[19] E. Kogon, H. Langbein, A. Rückerl et al., NS-Massentötungen durch Giftgas, S. Fischer, Francoforte 1983, p. 333-337.
[20] G. Sereny Honeyman, Into that Darkness, André Deutsch, Londra 1974, p. 193.
[21] Jewish Chronicle (Londra), 6 febbraio 1986, p. 8.
[22] VSD (Parigi), 29 maggio 1986, p. 37.