Lettera pubblicata dal quotidiano Le Monde il 29 dicembre 1978

“Il problema delle camere a gas[a]” o “la diceria di Auschwitz”

 Nessuno contesta l’utilizzo dei forni crematori in alcuni campi tedeschi. La frequenza stessa delle epidemie, in tutta l’Europa in guerra, esigeva la cremazione, per esempio di cadaveri di ammalati di tifo (vedere le foto dell’epoca).

 È l’esistenza delle “camere a gas”, autentici mattatoi chimici, che viene contestata. Dal 1945, questa contestazione va aumentando. I grandi mezzi d’informazione non l’ignorano più.

 Nel 1945, la scienza storica ufficiale afferma che delle “camere a gas” avevano funzionato, tanto nel vecchio Reich quanto in Austria, tanto in Alsazia quanto in Polonia. Quindici anni dopo, nel 1960, essa rivedeva il suo giudizio. “Prima di tutto” (?) le “camere a gas” non avevano funzionato se non in Polonia.[b] Questa lacerante revisione del 1960 annullava le mille “testimonianze”, le mille “prove” delle pretese gasazioni ad Oranienbourg, a Buchenwald, a Bergen-Belsen, a Dachau, a Ravensbrück, a Mauthausen. Dinnanzi gli apparati giudiziari inglesi o francesi i responsabili di Ravensbrück (Suhren, Schwarzhuber, Dr Treite) avevano confessato l’esistenza d’una “camera a gas” di cui avevano anche descritto, in modo vago, il funzionamento. Scenario comparabile per Ziereis, a Mauthausen, o per Kramer a Struthof. Dopo la morte dei colpevoli, si scoprirà che queste gasazioni non erano mai avvenute. Fragilità delle testimonianze e delle confessioni!

 Nemmeno le “camere a gas” di Polonia – si finirà bene per ammetterlo – hanno avuto più realtà. È agli apparati giudiziari polacchi e sovietici che noi dobbiamo l’essenziale delle nostre informazioni su di esse (vedere, ad esempio, la strabiliante confessione di Rudolf Höss, Kommandant in Auschwitz: Autobiographische Aufzeichnungen).

 Il visitatore attuale d’Auschwitz o di Majdanek scopre, in fatto di “camere a gas”, i locali in cui ogni gasazione sarebbe finita in catastrofe per i gasatori ed il loro entourage. Un’esecuzione collettiva con il gas, anche ammesso che sia praticabile, non potrebbe identificarsi con una gasazione suicida o accidentale. Per gasare un solo prigioniero alla volta, mani e piedi legati, gli Americani impiegano un gas sofisticato, e questo in uno spazio ridotto, da cui il gas, dopo l’uso, è aspirato per essere poi neutralizzato. Pertanto, come si poteva, ad esempio ad Auschwitz, far contenere duemila (e perfino tremila) uomini in uno spazio di duecentodieci metri quadrati (!), poi riversare (!) su costoro dei granuli di un banale e violento insetticida chiamato Zyklon B; infine, immediatamente dopo la morte delle vittime, inviare senza maschera antigas, in questo locale saturo d’acido cianidrico, una squadra incaricata di estrarre i cadaveri impregnati di cianuro? Dei documenti troppo poco conosciuti[c] mostrano d’altro canto: 1° che questo locale, che i Tedeschi avrebbero fatto saltare, prima della loro partenza, non era che un tipico obitorio (Leichenkeller), interrato (per metterlo al riparo dal calore) e provvisto d’una sola piccola porta d’entrata e d’uscita; 2° che lo Zyklon B non poteva eliminarsi con una ventilazione accelerata e che la sua evaporazione richiedeva almeno ventun’ore. Mentre sui crematori d’Auschwitz si possiedono migliaia di documenti, ivi comprese le fatture, fino all’ultimo pfennig, non si possiede sulle “camere a gas”, che, sembra, fiancheggiavano questi crematori, né un ordine di costruzione, né un progetto, né un ordine, né uno schema, né una fattura, né una foto. Durante i cento processi (Gerusalemme, Francoforte, ecc.) non si è potuto produrre nulla.

 “Io ero ad Auschwitz. Non vi si è trovata una ‘camera a gas’”. Si ascoltano appena i testimoni a discarico che osano pronunciare questa frase. Li si persegue in giudizio. Ancora nel 1978, chiunque in Germania reca testimonianza a favore di Thies Christophersen, autore di La Fandonia di Auschwitz*, rischia una condanna per “oltraggio alla memoria dei morti”.

 Dopo la guerra, la Croce Rossa internazionale (che aveva condotto la sua inchiesta sulla “diceria di Auschwitz”[d], il Vaticano (che era ben informato sulla Polonia), i nazisti, i collaboratori, tutti dichiaravano con molti altri: “Le ‘camere a gas’? non ne sapevamo nulla.” Ma come si può esser a conoscenza di cose che non sono esistite?

 Il nazismo è morto, è ben morto, con il suo Führer. Oggi resta la verità. Osiamo proclamarla. L’inesistenza delle “camere a gas” è una buona novella per la povera umanità. Una buona novella che si avrebbe torto a tenere ancora per molto tempo nascosta.[e]

29 dicembre 1978

Traduzione a cura di Germana Ruggeri

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Note

[a] L’espressione è di Olga Wormser-Migot, Le Système concentrationnaire nazi, 1968, Presses universitaires de France, 1968.
[b] “Keine Vergasung in Dachau”, del Dr Martin Broszat, direttore dell’istituto di storia contemporanea di Monaco.
[c] Da una parte, fotografie del museo d’Auschwitz (negativi 519 e 6228); dall’altra parte, documenti di Norimberga (NI-9098 e 9912).
[d] CICR, Documents sur l’activité du Comité international de la Croix-Rouge…, serie II, n° 1, che riproduce parzialmente (io ho copia del testo integrale confidenziale) il documento n° 9925: Visite au commandant du camp d’Auschwitz d’un délégué du CICR (settembre 1944), p. 91 e 92. Una frase capitale di questo documento è stata abilmente amputata di tre parole nel libro di Marc Hillel, Les Archives de l’espoir, p. 257, e la frase più importante (“Gli stessi detenuti non ne hanno parlato”) è stata saltata.
[e] Tra la ventina di autori che negano l’esistenza delle “camere a gas”, citiamo Paul Rassinier, ex deportato (Il Vero processo Eichmann, ossia Gli incorreggibili vincitori), e soprattutto l’Americano A. R. Butz per il suo rimarchevole libro The Hoax of the Twentieth Century (La Mistificazione del XX° secolo).

* La Sfinge, Parma, 1984 (NdT).